venerdì 27 marzo 2020
Il metro non è più la mera unità di riferimento per misurare le distanze. Il metro è improvvisamente diventato unità quantitativa antropologica, la camera sterile della nostra umanità
Quanta vita c'è in un metro?

Raul Gabriel

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Siamo in un mondo di realtà virtuali e robotica incombente, dottrine quantistiche e universi paralleli, smart working e criptovalute. Un mondo liquido, in polvere, magari anche gassoso, impossibile da inquadrare in una sola prospettiva, politica, filosofica o tecnologica che sia. Un mondo global, poi glocal, poi chissà cos’altro. In questo mondo vi sono però nozioni che resistono stoicamente alla diversificazione, per usare un gergo borsistico. Nozioni salde che ancora accomunano grandi fette dell’umanità. Il concetto di metro ad esempio.

Almeno fino a ieri nel mio caso. Non immaginavo che il supermercato di turno, ovviamente contingentato, sarebbe stato capace di stravolgere nella mia mente un paradigma cognitivo da sempre oggetto di investigazione filosofica e antropologica. Esistono unità di misura che rivelano lo stato delle relazioni sociali e lo parametrano con valori chiaramente quantificabili? Sono le misure umanistiche o quelle scientifiche a determinare il valore delle nostre esistenze? La fisica prevale sull’umanesimo?

Ho trovato una risposta non nel vento ma sul pavimento. Nell’attesa alla cassa mi è caduto lo sguardo a terra e ho visto una riga nera con la scritta a mano “1 metro”. Non ho potuto fare a meno di ripensare alla gloriosa barra di platino–iridio che viene conservata alla temperatura costante di 0°C nel Bureau International des Poids et Mesures a Sèvres, vicino a Parigi. Il metro, appunto. Intangibile unità di misura che come una monade è stata per lungo tempo il riferimento mondiale per la misurazione della lunghezza. Da oggi la mia idea di metro è definitivamente inquinata o, forse, evoluta. Non nella sua apparenza ma nella sua essenza.

Il metro non è più la mera unità di riferimento per misurare le distanze, il confine del nostro giardino o l’altezza di un mobile. Il metro da ora è la unità di misura della separazione sociale, dimensione di un universo incognito che, pur indefinito, viene perfettamente contenuto nello spazio di quel metro. Il metro è improvvisamente diventato unità quantitativa antropologica, relitto del pensiero euclideo trasformato nella rappresentazione perfetta di ciò che non possiamo controllare. È anche la misura dell’incertezza della conoscenza che diventa certezza della divisione. In un metro sta tutto il nostro universo di dubbio, di minaccia, di pericolo.

Quel metro è diventato la camera sterile della nostra umanità. Non è poesia di quart’ordine. È la trasformazione sostanziale ed irrevocabile della capacità di misurazione della nostra bolla prossemica. In quel metro nasce, o forse semplicemente si rivela, tutta la fragilità della concatenazione delle nostre relazioni. Il metro è assurto a definizione del nostro preteso umanesimo pressochè polverizzato, insignificante, fatto di parole vuote, utili solo a celebrare l’assenza di contenuto cui pensiamo di sopperire con qualche selfie più o meno fantasioso e qualche volta mortale.

L’improvviso salto qualitativo e di dimensione della unità di misura è estremamente interessante. Dallo status di strumento della rilevazione fisica, fondamentale per un popolo di agrimensori, passa istantaneamente a quello di unità multifattoriale che raccoglie in sé tutto il corredo dei dati antropologici di cui disponiamo oggi. Il metro è diventato un cosmo. In barba a secoli di studi sociologici, in quella riga tracciata malamente con nastro isolante nero e sbrigativamente siglata a mano, vi è una precisione chirurgica che nella altisonante nobiltà del platino iridio non è presente. Il taglio definitivo e immediato che possiamo essere chiamati a fare con tutto ciò che ci circonda, anche con noi stessi, per scoprirci forse domani scissi anche dalla nostra stessa identità. Di un metro, chiaramente.

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