lunedì 2 novembre 2015
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Aquarantacinque anni dallo scioglimento dei Beatles, nonché a quasi cinquanta dalla decisione di non esibirsi più dal vivo, la band di Liverpool continua a essere protagonista di innumerevoli iniziative discografiche. E trattasi di faccende non definibili certo minori se, dopo la ristampa di tutto il loro catalogo in stereo mono e vinile, dopo l’uscita di costosissimi cofanetti con la riproduzione degli Lp beatlesiani in stampa Usa o giapponese (sempre le stesse canzoni, ma diverse scalette e copertine…), e senza contare dischi e dvd non autorizzati capaci di pubblicare persino i live tedeschi degli esordi o il provino del gruppo (ovviamente fallimentare) alla Decca di Londra, se insomma dopo e malgrado tutto ciò si arriva a far uscire nel mondo, fra pochi giorni, un progetto come 1 e 1, no, proprio non è roba “minore” parlare dei Beatles. 1 riedita infatti 27 hit rimasterizzate e le abbina ad altrettanti video di materiali vari, molti inediti; e 1+ aggiunge al calderone altri 23 video di brani teoricamente meno forti, ammesso e non concesso che A day in the life sia tale, così che finiranno sul mercato sette tipologie di prodotti (Cd, Dvd, Blu-ray, accoppiate varie e le due versioni deluxe) contenenti 27 brani che proprio nuovissimi non si possono dire e 50 filmati che anche loro, in fondo, non sempre propongono qualcosa di realmente mai visto. Il tutto rimasterizzato e restaurato, certo, ma anche, proprio a conseguenza di ciò, lontano sia dai suoni originali che dal senso primigenio delle riprese, spesso casuale nonché con contenuti che non sempre coincidono coi brani su cui ora vengono innestate. Paul McCartney, commentando l’opera, parla di «spettacolari testimonianze dell’era in cui abbiamo vissuto». E certo i Beatles sono i Beatles, padri della musica contemporanea, rivoluzionari delle sette note del Novecento. Ma ha davvero senso tutto ciò? Ha, soprattutto, senso documentario-storico o trattasi di (per quanto magnifica) operazione di puro commercio? L’abbiamo chiesto a Franco Zanetti, critico musicale di vaglia, in carriera anche discografico (fu lui a pensare il primo disco italiano di brani natalizi rivisti apposta da grandi del pop), che si vide cambiare la vita ascoltando Penny Lane e ha dato alle stampe per Giunti Il libro bianco dei Beatles, monumentale «Storia e storie di tutte le canzoni». E Zanetti condivide amore per i Beatles e certe perplessità su tali operazioni discografiche, anche se lo fa con classe e un sorriso: «Lo scriva, che non sono super partes, che sono un consapevole “talebano” della purezza della storia». Però le sue riflessioni aiutano. Magari, crediamo, anche a gustarsi più consapevolmente 1, 1+ e dintorni.Che valore hanno progetti come questi?«Per la Apple Records un valore enorme. Commerciale. Ma attenzione: i destinatari non siamo noi che conosciamo e abbiamo seguito i Beatles: sono opere mirate a coloro ai quali si vuole farli conoscere. Anche perché, per dirne una, nell’opera video Anthology c’è già praticamente tutto quanto esce di nuovo qui. Certo era a spezzoni, per lo più; ma montarli insieme è un falso storico».Cultori, collezionisti, storici cosa vorrebbero?«Il tanto inedito che giace negli archivi Apple. Dal 1965 in poi è stato registrato tutto… Io ho un bootleg  [registrazione amatoriale, ndr] con 14 versioni di Strawberry fields forever che ne testimonia l’evoluzione. E sarebbe bello averlo di A day in the life, in alcuni passaggi della lavorazione totalmente diverso dal pezzo finale. Poi c’è il mitico brano ancora inedito Carnival of light. E basterebbe pure, soltanto, avere il film Let it be in una versione decente».Non è bello escano filmati comunque poco o mai visti?«Se li inventano non tanto. E già esiste un box giapponese non autorizzato di cinque Dvd contenente tutto quanto fatto dai Beatles in video: dagli spot ai cinque filmati che, il 23 novembre 1965, sancirono la nascita del concetto di clip. Li fecero per non andare più in tv...».Però di Bob Dylan, per dire, escono prodotti con la stessa canzone nelle sue varie versioni di lavorazione o cose simili. Perché per i Beatles no?«È una strategia. Che premia e ha un senso, pure: senza contare che Pete Best ha svoltato la vecchiaia grazie all’inclusione in Anthology delle cose da lui fatte con i Beatles prima di Ringo. E a me fa piacere si diffonda il verbo dei quattro. Anzi, capisco pure il doverlo adattare ai gusti odierni».Ma…?«Ma quando George Martin, che peraltro non vedo più coinvolto e non mi pare un caso, mixava in mono i loro brani pensando che sarebbero finiti sui vinili, forse li voleva far uscire in un certo modo. Ha senso ripulirli? Non è come ripassare la Cappella Sistina all’aerografo senza tenere conto delle idee di Michelangelo? E poi nei video mancano tante versioni, due di Hey Jude, un Day tripper, e non solo».Non è utopia sperare in edizioni anastatiche in toto?«È difficile far coesistere le due cose. Ma se progetti come questi implicano fatica, danno pure ritorno. E sarebbe bello che parte degli introiti finisse in operazioni diverse, pur se per pochi. Sennò quel lavoro lo faranno i bootleg».Perché nel 2015 siamo ancora qui a parlare dei Beatles, e a questi livelli?«Perché hanno cambiato tutto, anche oltre la musica in sé. La loro eredità, consciamente o meno, la trova in tutti gli artisti di oggi. Io non so se fra cinquant’anni faranno operazioni simili su Ed Sheeran: ma so che quando ascoltai Penny Lane su 45 giri capii che la musica era qualità, non solo forma. Guardi: resto “talebano”, però sono davvero contento che altre generazioni li conoscano, al di là di tutti i commenti sul filologicamente corretto. Del resto ribadisco, queste opere sono destinate a nuovi ascoltatori, non a noi: vedere il trailer del restauro video fa sobbalzare per la sua bellezza, mentre un filmato originale sgranato non darebbe nuovi proseliti ai Beatles. E poi con quello che la Apple ha in archivio uscirà ancora molto: possono fare operazioni simili per altri cinquant’anni».
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