mercoledì 28 ottobre 2020
Tutti i luoghi comuni sui permessi premio e sulle possibilità di recarsi a lavorare da detenuti sono smentiti dai numeri: il libro inchiesta di Bortolato e Vigna
Nel carcere di San Vittore, a Milano

Nel carcere di San Vittore, a Milano - Fotogramma

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Il modo migliore per smontare un luogo comune è di affrontare i fatti concreti che lo alimentano. Non eludere i dati reali che lo hanno fatto nascere, ingenerando la diffusa opinione che singoli episodi siano l’unica quotidiana realtà. Ma prendere quei dati reali per le corna, dandovi una diversa spiegazione. È il metodo seguito da Marcello Bortolato (presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze) ed Edoardo Vigna (giornalista del 'Corriere della sera') nel loro Vendetta pubblica. Il carcere in Italia (Laterza, pagine 176, euro 14). Il libro parte da due fatti di cronaca. L’ergastolano per quattro omicidi che, per la prima volta in permesso premio dopo 44 anni di carcere, aggredisce con un taglierino, nel sotterraneo di un ospedale milanese, un signore di 86 anni. Un altro condannato, in permesso, che tenta di sgozzare la compagna che lo vuole lasciare dopo aver saputo che era stato condannato per avere, tredici anni prima, ucciso la sua fidanzata all’epoca ventunenne. Come spiegare ai cittadini che i permessi premio sono uno strumento irrinunciabile per governare il pianeta carcere? Come spiegare che non ci può essere «pena senza un orizzonte », non solo perché lo dice Papa Francesco ma perché lo dicono cuore e intelligenza di chiunque abbia avuto a che fare col carcere? Come spiegare al padre di una ragazza ammazzata che, mentre sua figlia non potrà mai più vedere un Natale, il suo assassino, tra qualche anno, a certe condizioni, potrà trascorrerlo in casa con i suoi cari? C’è un solo modo per tentare di spiegare, far parlare i numeri. Ricordare ad esempio che, contro l’1,08 per cento di casi in cui il detenuto che ha ricevuto un permesso commette un reato oppure non rientra in carcere, sta un 98,92 per cento dei casi in cui va tutto bene.

Ma quel 98,92 per cento, ovviamente, non finirà mai nei titoli dei giornali. Eppure, ciascuno di quelle migliaia di permessi di soggiorno conclusi col ritorno in carcere del condannato è una pietra che pavimenta la strada per restituire alla società, al termine della pena, un cittadino migliore di quando era entrato in carcere. Per diminuire il rischio che, una volta completamente libero, il condannato torni a delinquere. Perché, nella quasi totalità dei casi, i permessi sono usati non per andare al mare ma per visitare la famiglia, per cominciare la ricerca di un lavoro, per riannodare i rapporti col mondo esterno. E tutto ciò serve a garantire all’intera comunità più sicurezza. A rendere un po’ meno utopica la promessa dell’art. 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (e non è un caso che questo articolo non parli di “pena”, bensì di “pene”: perché già i Costituenti – molti dei quali avevano conosciuto la galera nel ventennio fascista – avevano chiara l’idea che il carcere non può essere l’unica sanzione inflitta in caso di condanna). Non sono solo fiori. Non siamo così ingenui da non sapere che il carcere, con la sua «violenza minima strettamente necessaria» diretta a impedire che ciascuno si faccia giustizia da solo (Luigi Ferrajoli), ha anche una funzione di deterrenza e di difesa sociale. Ma ognuna di queste funzioni deve essere letta, interpretata, lumeggiata dall’articolo 27. Con questa luce sul fondo, Bortolato e Vigna raccontano il carcere e la sua vita quotidiana. Non quello descritto come un grand hotel da chi sta fuori. Perché, ricordano gli autori, se nel 1949 il protagonista di Riso amaro diceva «Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’è mai stato», oggi possiamo dire che solo chi non ha mai messo piede dentro le mura di una prigione può pensare che «dentro si vive meglio che fuori».

Il carcere delle pagine di Bortolato e Vigna è quello reale: con le sue celle triple e i tre metri quadri per detenuto, le ore d’aria, la “socialità”, le celle aperte sui corridoi ma più spesso chiuse (per rendere più facile la sorveglianza), i difficili tentativi di “sorveglianza dinamica”, i regolamenti, lo studio, i lavori, le diverse mansioni affidate ai detenuti, i suicidi, i colloqui, i rapporti col personale, i rumori, la televisione in ogni cella sempre accesa (ma chi decide il canale?). Il tutto, raccontato con linguaggio chiaro che, pur non rinunciando ad affrontare i complessi aspetti tecnici della materia, rende la lettura godibile anche da parte di un pubblico non specialistico. Con la stessa chiarezza gli Autori spiegano, sfatando altrettanti luoghi comuni, tutte le famose «misure alternative» al carcere: quali sono, quando e come si possono applicare, a cosa mirano, quali difficoltà incontrano. E anche qui, numeri e percentuali parlano da soli. Ne ricordiamo una: su dieci detenuti, in Italia, sette tornano a delinquere. Ma questa recidiva crolla (fino all’uno per cento!) per quei condannati che stando in carcere hanno potuto lavorare. Basterebbe questo dato per confermare l’assunto centrale del libro: creare condizioni di vita più dignitosa per i detenuti e aprire il carcere alla società non significa soltanto essere più umani. Vuol dire anche creare più sicurezza per tutti i cittadini. A riprova del fatto che l’umanità può essere momentaneamente sconfitta, può essere irrisa, umiliata, apparire ingenua e velleitaria di fronte al male. Ma, alla fine, vince.

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