mercoledì 19 maggio 2010
Enorme successo per «Des Hommes et des Dieux» di Xavier Beauvois, in gara, sulla drammatica vicenda dei religiosi rapiti e assassinati in Algeria nel 1996.
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Può un film senza star inchiodare il pubblico alle poltrone e commuoverlo profondamente raccontando la vita quotidiana e mistica di un gruppo di monaci trappisti nell’Algeria degli anni Novanta? È quello che è accaduto ieri quando in concorso sugli schermi di Cannes è arrivato Des Hommes et des Dieux di Xavier Beauvois sulla drammatica vicenda dei religiosi rapiti e assassinati a Tibhirine nella primavera del 1996, ancora oggi al centro di una difficile indagine giudiziaria. Se infatti all’inizio la strage era stata attribuita alla GIA (Gruppo Islamico Armato), in una fase processuale successiva  si è invece parlato di un «errore dell’esercito algerino».Un fatto ancora oscuro, dunque, ma il regista lascia da parte la controversia per concentrarsi in maniera esemplare (e il pensiero va al bel documentario Il grande silenzio) sulla vita monastica dei protagonisti, tra lavoro, preghiere, pasti e l’impegno per il prossimo. Perfettamente integrati in terra musulmana, i monaci guidati dal priore Christian de Chergé considerano propri fratelli gli islamici di cui si prendono cura e con i quali recitano anche passi del Corano testimoniando con la propria vita un amore per l’umanità che va oltre le barriere culturali e religiose. E proprio in questo sta la forza del film, nella decisione coraggiosamente rigorosa di raccontare la difficoltà di una scelta non priva di dubbi e tensioni.Il 30 ottobre 1994 la GIA ordinò infatti a tutti gli stranieri di abbandonare l’Algeria, ma quei monaci decisero di restare al fianco di chi aveva bisogno di loro. «È difficile trovare persone capaci di amare così tanto il prossimo – dice il regista Beauvois – ed è proprio questo che mi ha spinto a realizzare il film. Viviamo in una società fondata sulla velocità, ma io credo che la gente sia abbastanza intelligente per compiere uno sforzo e capire un mondo fatto di contemplazione e lentezza». E a proposito della decisione di non raccontare nel film la morte dei monaci e la successiva indagine, il regista aggiunge: «La cosa che davvero mi interessava è la straordinaria vita di questi uomini, non quello che è accaduto dopo, anche se personalmente credo nella tesi dell’errore dell’esercito. I loro corpi furono decapitati e mostrare questo sarebbe stato ridicolo, oltre che irrispettoso per le famiglie delle vittime».«Non amo i dogmi imposti dalle religioni – afferma invece Lambert Wilson che nel film interpreta il priore – ma ho molto rispetto per chi ha fede e per chi confida in Dio nei momenti difficili della vita. Lo scopo di questo film è mostrare l’amore e la compassione che unisce tutte le persone e credo che la politica non debba mai entrare nella religione: la loro mescolanza è fonte di grande sofferenza per l’umanità. Non uccidete in nome di Dio, questo è il messaggio che ci sta a cuore divulgare. Badate bene, non sono né pazzo né fanatico del metodo americano dell’immedesimazione, ma credetemi, quando giravamo questo film ho sentito su di me la presenza forte e la protezione di padre Christian. E così è accaduto agli altri attori. Abbiamo trascorso molti giorni in ritiro nel monastero prima di girare e in quello spazio di pace tra noi è nata quella speciale fratellanza che legava i monaci da noi interpretati».Michael Lonsdale, che veste i panni di fratello Luc, il medico, aggiunge: «Non c’è amore più grande che dedicare la propria vita agli altri, e questo comporta un grande sacrificio. E il sacrificio è assai disturbante perché nessuno vuole mai rinunciare a qualcosa. Questi monaci hanno invece voluto testimoniare di credere in qualcosa di universale e lo hanno fatto sacrificando la propria vita».
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