sabato 4 aprile 2020
A 72 anni scompare il più grande genio ribelle del calcio italiano. Era nato nella Casarsa di Pasolini. Una storia rara del pallone, da leggere attraverso i suoi libri, specie quelli di poesia
L'addio a Ezio Vendrame, il più grande genio ribelle del calcio italiano e l’unico poeta che ha espresso un secolo di intronata routine di questo pallone leggero, a volte insostenibile, come alcuni esseri che lo popolano e lo governano

L'addio a Ezio Vendrame, il più grande genio ribelle del calcio italiano e l’unico poeta che ha espresso un secolo di intronata routine di questo pallone leggero, a volte insostenibile, come alcuni esseri che lo popolano e lo governano - Archivio Avvenire

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Piango il più grande genio ribelle del calcio italiano e l’unico poeta che ha espresso un secolo di intronata routine di questo pallone leggero, a volte insostenibile, come alcuni esseri che lo popolano e lo governano. Piango Ezio Vendrame. Ezio, l’amico fragile e sincero. Un padre (il mio, Mario, è del 1946), un uomo verticale, classe 1947. Ognuno ha i suoi idoli e i suoi campioni del cuore, e io, la prima volta che di lui mi parlò Giancarlo Dotto (il primo a stanarlo dall’oblio in cui si era rifugiato), capii che Vendrame sarebbe diventata la mia “figurina dell’anima”.
Una Panini rarissima, che custodisco gelosamente nel portafoglio, come fosse uno di famiglia, e che gli mostrai alla prima stretta di mano, calda, indimenticabile, che ci scambiammo. Come Gianni Mura, al nostro primo incontro a Casarsa della Delizia, il suo paese natale, ebbi l’onore di essere atteso da Ezio. «Arrivo sempre con due o tre ore d’anticipo, perché non sai quanto amore c’è nell’attesa di una persona che vuoi incontrare...». Ora l’ho capito... Ezio ne stava lì, da solo, al cimitero, davanti alla tomba di Pier Paolo Pasolini. «È lui che dovresti intervistare, non me... La gente di qui si è dimenticata di un gigante come Pasolini, potevano ricordarsi del sottoscritto?», mi disse con i suoi occhi scuri, languidi, pieni di un disperato desiderio d’amore.
Per fissare quell’incontro, al telefono avevamo parlato per ore, ma mai di calcio. Parlammo d’arte, perché sapeva dipingere, e poi delle sue poesie, perché sapeva scrivere il mio Ezio: versi scarni, impastati di anima e sangue. Si scorticava l’anima come Dino Campana («i suoi Canti orfici mi distruggono dentro») per scrivere cose tipo: «Come si fa a tranciarsi il cuore / per paura di darsi interi». A Casarsa c’è la casa materna di Pasolini con la stanza del figlio, Pier Paolo, tappezzata di rossoblù, in onore della sua squadra, il Bologna. Ezio non aveva belle bandiere, né squadre, né santi in paradiso. Viveva, anzi sopravviveva, con la sua solitudine a guinzaglio in una casa minuscola: una stanza abitata dai dischi (tutto Leo Ferrè), i libri di poesia (tutta la Merini) e dai fantasmi del passato.
A Casarsa c’era quel passato che ritorna, che lo marcava stretto come un terzino perfido, e lo feriva con i tacchetti al cuore. Un dolore incessante, che nel tempo si è fatto cancro. Ma il male di vivere si era presentato presto nelle sue notti insonni e nei giorni del “digiuno” giovanile. Ezio è stato il primo anoressico del calcio italiano anni ’70. Ogni vigilia di partita erano crampi allo stomaco: allora correva nel cesso dello spogliatoio a vomitare tutte le sconfitte di un’adolescenza in cui si era sentito «orfano con i genitori in vita». «Un pallone mi ha salvato la vita», raccontava in una biblioteca sperduta della Brianza dove lo trascinammo con l’altro mio fraterno poeta e narratore tarantino, Cosimo Argentina.
Quel pallone a 14 anni lo fece rimbalzare a Udine. Ospite nella casa-collegio, la villa del Comuzzi dove alloggiava con un ragazzone, friulano anche lui, Dino Zoff che all’epoca era «un portiere brocco in cui nessuno credeva». Nessuno, tranne Ezio, perché lo Zoff che prendeva 7 gol dal Foggia conservò per anni l’articolo della sua disfatta personale in tasca: «Quello era il segno della forza e dell’umiltà. E anche se avesse fallito nel calcio, per me Dino sarebbe rimasto sempre il numero uno». Un leader, un capitano vero come «“Totonno” Juliano che a Napoli, voleva che i giocatori dividessero sempre i premi partita anche con quei due vecchietti dei magazzinieri: “gli ultimi, la bassa forza”». Ezio è sempre stato dalla parte degli ultimi, degli emarginati, anche quando al Vicenza iniziarono a idolatrarlo per farlo diventare l’oggetto del desiderio al gran bazar delle grandi squadre del Nord. Boniperti lo chiamava il «Kempes italiano» e lo avrebbe voluto alla Juventus, ma Ezio era un bolide difficile da guidare persino per gli Agnelli. Passava per un irregolare ingestibile, e anche lo stesso Gianni Mura, che lo vide giocare dal vivo - a differenza mia - , lo considerava «uno da Nazionale, ma con un’altra testa».

Umile con gli umili, ma refrattario alle critiche, specie se spioventi del mondo del calcio, ribatteva sbattendo i pugni sul tavolo: «Da parte mia io giocavo in Nazionale da sempre, perché da sempre avevo fatto quello che avevo voluto, senza concedere in mano d’altri il telecomando della mia vita». Se mi mandi in tribuna godo non è solo uno dei titoli della dozzina di libri che ha scritto), ma il manifesto della sua libertà di scelta e di pensiero. La sera che lo presentò a Olmo di Creazzo, nella trattoria di Luigino De Gobbi, ho assistito alla più esilarante delle gag di Vendrame: l’incontro con Luis Vinicio. Il mister leonino di quel Napoli in cui Ezio arrivò con le stimmate del talento in ascesa, e invece, incompreso come sempre, si ritrovò triste, solitario e finale, in tribuna. «Se non ci fossero state le partite della domenica sarei stato il più grande di tutti e invece lo dico e lo confermo, sono stato un giocatore del... (bip)». A rapire i suoi sogni spettinati, quanto quella chioma nera corvina da apache, arrivò la poesia e la musica di Piero Ciampi. «Quando conobbi Piero, mi cambiò la prospettiva, non potevo più pensare al calcio».

Da lì cominciò Un farabutto esistere del funambolo che a San Siro si concesse il lusso di un tunnel al più grande dei n.10, Gianni Rivera. «Ma poi gli ho chiesto scusa», raccontava candido Ezio che ha sempre avuto il coraggio di scusarsi con quel mondo di pallonari in cui si era sempre sentito un turista per caso. Ezio si scusava ancora per l’«inciucio» con l’arbitro, compiuto dal Presidente del Consiglio, il vicentino Graziano Rumor: «Padre Graziano era meglio di Padre Pio», che mandò in B l’Atalanta al posto del Vicenza. Chiedeva scusa anche per aver solo pensato di guadagnare 7 milioni (di lire) facili facili, truccando la partita in favore dell’Udinese per poi accontentarsi del solito premio vittoria del Padova: 44 mila lire e vincerla da solo quella sfida, ma con dignità. «Mi soffiai il naso con la bandierina e poi a quei tifosi dell’Udinese che mi insultavano gli dicevo che avrei fatto gol da lì, dal calcio d’angolo». Gol! Un gol alla Vendrame, la giocata folle, lì nel vecchio stadio Appiani (ai giovani padovani ricordo che lì Ezio si era incatenato pur di non farlo chiudere), di fatto “scomparso”, come quel tifoso, che fece morire d’infarto quando si mise a smarcare i compagni e finse di segnare nella sua porta. «Mi sono convinto che quel tifoso si è suicidato, perché ci deve essere una ragione se un malato di cuore viene a vedere proprio me». Diagnosi alla Ezio, che da giocatore in carriera, trovava pazzi quei tifosi invasati, bracconieri d’autografi da collezione, e predicava loro, in vano: «Non sono un chirurgo che salva vite umane e nemmeno un operaio che per arrivare alla fine del mese si deve fare un sedere grande così... Io sono fortunato, ed è per questo che non vi capisco. Che cosa saranno mai queste partite di calcio? Inventatevi delle alternative...».


Una storia rara del pallone, da leggere attraverso i suoi libri, specie quelli di poesia
«A nessun funerale mai, l’amore non si sotterra»

Sapeva trovarle le alternative Ezio, anche a costo di perdere. «Se ho perso tutto è perchè ho solo amato tanto», ha scritto da padre mancato che rifiutava quei genitori convinti che la soluzione fosse crescere in casa non un figlio, ma il campione del futuro. Così lasciò il “posto fisso” di tecnico delle giovanili del Venezia di Zamparini. Se ne andò sbattendo la porta e implorando il cielo: «D’ora in poi, voglio allenare solamente una squadra di orfani». Ricominciò per gioco e per amore, con i ragazzi della Sanvitese, mettendoli subito in guardia: «Non chiamatemi mai “Mister”. Io sono soltanto Ezio. La parola mister è un muro di difesa costruito dagli adulti che hanno paura di confrontarsi e che io ho abolito per sempre». Non ha mai abolito la parola amore dal suo vocabolario esistenziale, e l’allievo più amato è stata una creatura particolare. «Il mio Rocco Paiero... un ragazzo di una dolcezza infinita. Hanno scambiato il suo disperato bisogno di non diventare adulto, la sua smania d’amore, per un problema psichiatrico». A Rocco, era dedicato ogni gol dei suoi ragazzi della Sanvitese e nel giorno della ripresa degli allenamenti gli ricordava: «Se avete vinto il campionato anche lo scorso anno lo dovete a Rocco».

Ma tutto questo accadeva già tanto tempo fa. Prima che Ezio si innamorasse della musica dei Têtes de Bois (per cui ha scritto un paio di canzoni), prima della fuga a Parigi alla ricerca del suo mito giovanile, Jane Birkin, diventata vicina di casa, per poi ripiegare sconsolato in una relazione con una giovane creola, «troppo giovane per me». Un giorno Ezio ha smesso di rispondere al telefonino, che non ha mai amato, «ogni Natale lo spengo il 24 dicembre e lo riaccendo il 7 gennaio». Ai miei sms rispondeva con due mesi di ritardo, con un tenero e lapidario: «Ti voglio bene Max». Li conservo tutti, assieme ai ricordi sparsi come qualche fotografia, e una poesia scritta apposta per me... Non avrei mai immaginato Ezio che te ne saresti andato via così in fretta, e poi nel tempo assurdo in cui a un uomo non è concesso neanche degna sepoltura. Ma del resto la tua volontà è nella tua poesia: «A nessun funerale mai /. L’amore non si sotterra».

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