Racchetta e fede: i segreti di Alcaraz

Un cattolico devoto che porta sempre con sé simboli religiosi, come un santino della Vergine della Fuensanta, regalatogli da sua nonna
December 29, 2025
Racchetta e fede: i segreti di Alcaraz
Carlos Alcaraz in azione nel match contro Cameron Norrie agli Atp Master di Parigi / Ansa / Yoan Valat
Nel tennis che corre veloce, fatto di jet privati, sponsor milionari e pressioni infinite, Carlos Alcaraz continua a sorprendere per un dettaglio inatteso: la sua fede semplice, radicata nella famiglia e vissuta senza clamori. Lo si nota nei suoi gesti spontanei, nei post sui social, nei pellegrinaggi che condivide quasi con pudore. Una spiritualità naturale, che riaffiora nella sua vita professionale e privata.
L’ultimo episodio che ha fatto discutere arriva da una foto pubblicata su X: Alcaraz che festeggia nel salotto dei genitori la qualificazione della Spagna in Coppa Davis. La scena ha scatenato un fiume di commenti. C’è chi lo ha preso in giro perché un tennista milionario «non può» avere un soggiorno così semplice: tovaglia di plastica, un televisore qualunque, uno scaffale Ikea sui quali però spiccano i trofei degli Us Open e di Wimbledon. Ma molti altri hanno apprezzato quella normalità disarmante, la bellezza del numero uno del mondo che torna nella casa di famiglia come un figlio qualsiasi. Colpisce, nell’immagine, una cornice dorata sotto lo schermo: è una benedizione papale, di quelle che spesso si regalano alle coppie, con la foto di papa Francesco. Un dettaglio che non è sfuggito ai fan più attenti.
Quella cornice racconta molto. Perché la fede, per Carlos, è una questione di famiglia. Nato nel 2003 a El Palmar, alle porte di Murcia, è cresciuto in un ambiente cattolico dove le feste mariane, le processioni e le preghiere sono parte della vita quotidiana. Il nonno materno Manuel Román Garfia Cano, originario di Siviglia, fondò a Murcia nel 1986 una confraternita dedicata a Nuestra Señora del Rocío alle cui processioni, la festa è l’8 settembre, ha sempre partecipato finché ha potuto il piccolo Carlito. La nonna Victoria, devotissima alla Virgen de la Fuensanta, regalò al piccolo Carlos un santino che il campione porta ancora con sé, nella tasca della racchetta. Lo si vede spesso nelle foto: un dettaglio minimo, ma rivelatore di un legame profondo.
La devozione mariana accompagna Alcaraz anche nei suoi viaggi. Non è un caso che lui stesso condivida sui social i momenti più significativi: com’è avvenuto nel 2023, quando si è recato al santuario della Madonna di Guadalupe. Arrivò con oltre mezz’ora di ritardo a un evento per i tifosi, e fu lui a spiegare il motivo: «Sono stato dalla Morenita». Pubblicò alcuni scatti davanti al santuario e all’immagine della Madonna, con una rosa in mano, dettaglio che i pellegrini messicani non hanno mancato di sottolineare.
Stessa cosa lo scorso maggio, alla vigilia degli Internazionali d’Italia: prima di scendere in campo è andato in Vaticano per rendere omaggio alla Virgen de la Esperanza di Malaga, esposta a San Pietro. Anche in quel caso, il gesto è stato condiviso sui social, quasi a dire che la fede non è un abito da nascondere, ma un modo naturale di abitare il mondo.
La dimensione spirituale di Alcaraz è emersa ancora più chiaramente alla vigilia degli Us Open 2024. Il suo team telefonò alla cattedrale di San Patrizio: «Servirebbe un sacerdote che parli spagnolo». A rispondere fu don Luigi Portarulo, 38 anni, sacerdote italiano originario di Bernalda a Manhattan, che ha raccontato quell’incontro come «un momento di grande semplicità». Alcaraz lo accolse timido, quasi sorpreso, e ascoltò la benedizione a capo chino: il video fece il giro del web. Don Luigi ha rivelato che il tennista gli confidò un desiderio particolare: incontrare un giorno papa Leone, grande appassionato di tennis. «Mi ha colpito – ha detto il sacerdote a repubblica e a Tv2000 – la sua fede tranquilla, non ostentata. Un ragazzo vero». In quell’occasione anche altri giocatori presenti, come Taylor Fritz, Cobolli, Musetti e Flavia Pennetta hanno chiesto la stessa cosa.
Un altro episodio recente arriva da Murcia: dopo il Masters 1000 di Parigi, Alcaraz ha assistito alla partita del Real Murcia, dove ha incontrato Miguel Tovar, cappellano della squadra e il più giovane sacerdote di Spagna con i suoi 24 anni. Il video della benedizione è diventato virale. «Per me, come suo compaesano, è stato un orgoglio benedire il miglior tennista del mondo», ha scritto don Tovar, sottolineando come la fede del campione sia «sincera, radicata e luminosa».
In un mondo sportivo spesso dominato dai gesti scaramantici, Alcaraz mostra invece una religiosità sobria, di sostanza. Prega prima delle partite, indossa una piccola croce, frequenta santuari e chiese quando gli impegni lo permettono. «Dio mi ha dato un talento – ripete – io cerco solo di usarlo bene». Una frase che ricorda la gratitudine come postura del cuore, e che spiega la sua capacità di restare umile nonostante i successi.
E così, tra un trofeo Slam e un pellegrinaggio mariano, tra l’allenamento a 200 all’ora e una visita a un sacerdote, Carlos Alcaraz costruisce un’identità in cui eccellenza e semplicità camminano insieme. La sua forza, forse, sta anche lì: in quella fede normale che profuma di casa, nel santino sgualcito che porta in tasca, nella benedizione chiesta senza imbarazzo, nella gioia di un ragazzo che mantiene un cuore da figlio. Una fede che non pretende di vincere le partite, ma che lo aiuta a giocarle con serenità e gratitudine.
Angela Calvini

Il cammino senza fine di Carlitos per regnare sulle cose del tennis 

Nel suo libro Alcaraz. L’uomo dietro il sorriso (Limina, pagine 288, euro 19,90), Mark Hodgkinson compie un’operazione non semplice: restituisce a quello che a tutti gli effetti, è un fenomeno sportivo la sua verità umana. Perché Carlos Alcaraz non nasce in un’accademia dorata, una delle tante che ci sono oggi in Spagna, fondate da campioni del calibro Rafa Nadal o Carlo Moya, non cresce nel circolo esclusivo di un’élite. Nasce sopra un negozio di kebab, in una palazzina di El Palmar, periferia popolare di Murcia, dove al piano terra convivono odori, accenti e traffici di un Mediterraneo meticcio in cui la Spagna si mescola con l’Africa e con l’Oriente. Non c’è l’immagine aristocratica dell’erba inglese, ma solo quella della terra rossa, ma non quella del campo da tennis, ma quella delle arene dove si tengono le corride.
È lì, insomma, racconta Hodgkinson, che Alcaraz forgia il suo carattere: un ragazzo che non ha mai vissuto nella bolla dei predestinati, ma in una casa dove tutto era comunità, incrocio, vicinanza. Dove alle foto di papa Francesco, si accompagnano i riti di una religiosità sentita e di prossimità. Un ambiente che lo ha reso naturale nell’inclusione, istintivo nel rapporto con la gente, capace di abbracciare differenze culturali senza mai farne una bandiera. È il meticciato mediterraneo a costruirlo: la Spagna rurale dei padri, il mondo arabo del negozio sotto casa, il corridoio di lingue e musiche che ogni giorno gli passava davanti. Da qui nasce quel sorriso che sembra non conoscere traduzioni: uno dei tratti più affascinanti del libro.
Hodgkinson osserva come tutto ciò non sia folclore narrativo, ma un elemento decisivo anche nel suo tennis. Alcaraz è ritenuto più forte tecnicamente del nostro Jannik Sinner, ma meno continuo, meno mentale, più estroso. Possiede, infatti, più registro, più possibilità di colpo, più fantasia naturale. Ma, paradossalmente, è proprio questa ricchezza a portarlo talvolta fuori strada. Laddove Sinner riduce l’essenziale, Alcaraz amplia il possibile. Dove l’italiano trova ordine, lo spagnolo cerca il caos creativo. E in questo caos si manifesta la sua umanità, rivelata non nei colpi vincenti, ma negli errori gratuiti, nei passaggi a vuoto. Alcaraz è troppo “vivo” per essere contenuto.
Il libro interpreta questi momenti non come limiti, ma come il riflesso di un temperamento generoso. Alcaraz osa perché sente lo sport come una forma estetica, quasi rituale. Non vuole mai deludere il pubblico. Non vuole vincere “bene”: vuole vincere bello. È qui che l’immagine più efficace per Carlos diventa quella del torero. Alcaraz non gioca solo per colpire, ma per incontrare chi guarda. Non cerca il punto: cerca l’“Olé”. Come un torero nella corrida, sfida la propria stessa esondazione emotiva, gioca al limite tra controllo e smarrimento, ritmo e improvvisazione, sapienza tecnica e impulso quasi infantile.
Eppure, nel libro emerge con forza anche il suo lato più semplice: il ragazzo che torna a casa a mangiare con la famiglia, che considera il padre il suo primo – e più severo – maestro, che si allena nello stesso circolo di sempre e che vive lo sport come un dono, non come un destino programmato. Hodgkinson mostra come questa normalità lo protegga: un umile quotidiano che bilancia la pressione di un talento storico.
La conclusione del libro è un invito alla complessità. Alcaraz non è un campione monolitico, non è una macchina da risultati. È un ragazzo che ha dentro tutto: l’arabo del kebab, il latino del quartiere, la Spagna dei padri, il Mediterraneo che assorbe, mescola e restituisce. È forte perché è molto. E ogni volta che sbaglia, ogni volta che sorride, ogni volta che tenta un colpo senza senso apparente, ci ricorda che il tennis non è solo calcolo: è gesto, ardore, intuizione, empatia. Perché Alcaraz è solo un ragazzo venuto da un piccolo incrocio di mondi, che tiene insieme tutto senza mai perdere ciò che conta, ed è per questo che piace tanto.
Davide Re

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