Buzzati e Chailly nella copertina del libro presentato alla Scala - Curci
«Mio Dio… ci siamo». Aveva sussultato, Dino Buzzati, il giorno in cui nella sua vita era davvero arrivato il grande evento: nientemeno che il Teatro alla Scala di Milano aveva commissionato un’opera al Buzzati librettista e al compositore Luciano Chailly. «Mio Dio, ci siamo», mormorò dunque Buzzati, certamente più scosso dall’ansia che dalla gioia. Era il 1963, esattamente 60 anni fa, e nasceva così l’opera in un atto Era proibito, ennesimo risultato del sodalizio tra i due artisti amici, il cui genio – letterario e musicale – segnò profondamente la vita culturale della seconda metà del Novecento, vivacizzandola con le arditezze dei loro nuovi linguaggi, così affini e complementari da creare un unico affresco di reciproche influenze tra le sonorità sperimentali di Chailly e la narrativa fantastica di Buzzati.
E ieri i due amici sono tornati alla Scala entrando dalla porta principale, non per la messa in scena di una delle loro opere (chissà perché dimenticate da decenni nei cartelloni scaligeri), ma per la presentazione di un libro scritto dallo stesso Luciano Chailly nel 1987 e intitolato Buzzati in musica. L’opera italiana nel dopoguerra, 304 pagine che si divorano grazie alla ricchezza di aneddoti sconosciuti e alla penna arguta dello stesso musicista (padre di Riccardo Chailly, direttore musicale della Scala). Si deve alle Edizioni Curci la ristampa del prezioso volume, in occasione dei 50 anni dalla morte di Buzzati e dei 20 da quella di Chailly.
A parlarne ieri, nel ridotto dei palchi “Arturo Toscanini”, sono stati il critico musicale Angelo Foletto, autore della prefazione al libro, e Raffaele Mellace, consulente scientifico del Teatro alla Scala. È Foletto a sottolineare la quasi miracolosa simbiosi tra il musicista e il librettista, fatto “non frequente nella storia dell’opera”, dove molto più diffuso è «il rapporto gerarchico, di sudditanza o di reciproca indipendenza». Di rado un dialogo alla pari va oltre la singola esperienza, spiega Foletto, che cita i casi di Mozart e Da Ponte, Verdi e Boito… «e appunto Chailly e Buzzati», la cui «forma di complicità» è stata «unica» grazie alla comune voglia di sperimentare, di mettersi alla prova in soluzioni sceniche originali e situazioni narrative senza confini.
«Chailly in questo libro ci racconta il panorama operistico dal 1945 al 1970: un buco nero di cui oggi si sa pochissimo», ha commentato Mellace, «è già finita la grande tradizione operistica morta con Puccini, e non c’è ancora il teatro sperimentale dei Berio e dei Nono. Eppure è un periodo in cui si fa tanta opera, con una direzione ben precisa: non ci sono più un operista e un librettista di professione, ora i compositori si rivolgono all’alta letteratura. Sono innumerevoli gli esempi di collaborazione diretta tra musicisti e letterati, ma il sodalizio tra Buzzati e Chailly è particolare per il numero impressionante di opere e per i diversi registri che insieme sperimentano».
Nelle quattro opere Ferrovia sopraelevata, Procedura penale, Il mantello ed Era proibito, e nel balletto Fantasmi al Grand Hotel, le atmosfere surreali di Buzzati trovano così nelle partiture di Chailly un perfetto corrispettivo musicale, e viceversa. Eppure negli anni ’50 e ’60 l’accoglienza del pubblico e ancor più della critica non fu rosea. È lo stesso Chailly, in pagine godibili per il sottile umorismo, a descrivere la bagarre che avvenne ad esempio a Bergamo nel ’55 alla prima assoluta di Ferrovia sopraelevata (che noi abbiamo avuto il privilegio di rivedere nel 2009 con Almerina Buzzati, vedova dello scrittore, al Piccolo Teatro Studio di Milano, dove raccolse convinte ovazioni): «L’apparizione del cane in scena, un cane vero (che tra l’altro fece benissimo la sua parte) provocò una repentina sfacciata ilarità – scrive il musicista, che non fa sconti né a Buzzati né a se stesso –. Si sentì uno che chiaramente disse: “L’autore!”. Ma fu quando l’anima del cane cominciò a parlare tra le nubi, che esplose una forte reazione». Buzzati, “verde e inebetito”, dissuase il regista e il fratello di Chailly dal salire in loggione a fare a pugni. «Dopo l’ultimo bicordo di vibrafono e arpa, scoppiò un po’ di tutto: applausi, fischi, urla, rumori di piedi battuti. Ma alla fine predominarono decisamente gli applausi» (non sufficienti a convincere il timido Buzzati a superare il sipario e presentarsi al pubblico, «diceva modestamente che ce l’avevano con lui»).
Troppo avanti rispetto ai tempi, oggi Chailly-Buzzati nelle rare occasioni in cui i teatri ripropongono le loro opere incontrano un pubblico maturo, finalmente in grado di subìre il sortilegio e accogliere l’arcano, che arrivi dall’eco di una frana dolomitica o da un sinistro portone di città o dal ploc di una goccia o dal guaito lontano di un cane con i suoi sottintesi… Il libro allora è ancor più prezioso perché induce alla lettura dei libretti di Buzzati, praticamente sconosciuti eppure così coerenti con i capolavori dell’autore del Deserto dei Tartari e di centinaia di racconti geniali.
Stridono, rilette oggi, le acide recensioni uscite all’epoca sui giornali e riportate puntualmente nel volume. Insieme a un commento già pronunciato da Giuseppe Verdi, anch’egli non immune ai fischi: «La prima rappresentazione non conta, solo il tempo ci dirà!». «E la triste risposta del tempo è che l’opera (Era proibito) non si è mossa più», chiosava nel 1987 Chailly. Poi, per fortuna, non è andata così.
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