sabato 26 maggio 2018
A Torino sul set di “Bene ma non benissimo”, debutto alla regia per l’attore: «Una commedia sul riscatto di due piccole vittime. Non sono più quello de “I soliti idioti”, la paternità mi ha cambiato»
Francesco Mandelli a Torino sul set del film “Bene, ma non benissimo” (Paolo Dematteis)

Francesco Mandelli a Torino sul set del film “Bene, ma non benissimo” (Paolo Dematteis)

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«Ho deciso di girare un film sul bullismo perché da tre anni sono diventato padre e spero di fare qualcosa che un giorno sia utile a mia figlia che questi temi li dovrà affrontare ». Il milanese Francesco Mandelli, attore, autore e oggi al debutto come regista, nato a Mtv e noto soprattutto per la comicità politicamente scorretta de I soliti idioti insieme a Fabrizio Biggio, a 39 anni è al punto di svolta della maturità. Lo incontriamo, basettoni e coppola dietro a una cinepresa, nella libreria Coop nell’elegante Galleria San Federico di Torino, dove sta girando l’ultimo ciak di Bene ma non benissimo. Un film sul tema del bullismo che prende il nome dal tormentone firmato dal rapper torinese Shade, uno da 70 milioni di visualizzazoni su youtube, presente anche nella pellicola e che rivela «sono stato bullizzato anch’io da bambino, una cicatrice che non guarirà mai. Oggi vorrei fare la mia parte per dire no al bullismo». L’idea del film è venuta all’attore Fabio Troiano che ha scritto e sceneggiato il soggetto con il regista Vincenzo Terracciano che coproduce con lui la pellicola, accanto a Viva Production col supporto Film Commission Torino Piemonte e Fip Film Investimenti Piemonte. Il bullismo è visto con gli occhi di due ragazzini di 13 anni vittime del “branco”: Candida (la 13enne Francesca Giordano, nel cast di La mafia uccide solo d’estate), siciliana, immigrata con qualche chilo in più, ma dal carattere fortissimo, e Jacopo, bello e timido, figlio di una ricca coppia borghese (Gioele Dix e Euridice Axen). Nel cast anche Antonio Catania nei panni di un comprensivo sacerdote.

Francesco Mandelli debutta alla regia su un tema forte. Come ci è arrivato?

«Volevano qualcuno che sapesse parlare ai giovani: ho detto subito sì. Finora avevo detto molti no, perché non mi andava di fare sempre lo stesso film con lo stesso tipo di comicità. Mi lancio nella regia perché mi interessano film con tematiche sociali, di ampio respiro. Sarà una commedia tenera e a lieto fine».

Diversa quindi dal tipo di comicità graffiante e a tratti urticante de I soliti idioti?

«Io arrivo da un altro tipo di comicità, che mi piace ancora, ma avere avuto un figlio ha cambiato la prospettiva. Il Francesco che faceva I soliti idioti non c’è più. Non ho più quella leggerezza, quel modo di vedere le cose. E non è vero che con la crisi la gente vuole ridere e basta. Lo dimostrano i botteghini: se fai un film che non racconta niente, la gente se ne sta a casa sua».

Chi sono i ragazzi vittime di bullismo nel film?

«Il tema portante è l’amicizia. Francesca e Jacopo sono due ragazzi non molto integrati, ma insieme riusciranno a farcela. La cosa più brutta per un adolescente è quando ti ignorano, quando non fai parte di un gruppo. Inoltre è un film sulla forza femminile: è Francesca, che ha visto morire la madre, a trainare l’amico. Una scelta fatta dopo aver letto tanti fatti di cronaca di ragazze bullizzate che arrivano a gesti estremi, non ultimo il suicidio alla stazione di Torino Porta Susa di una 15enne che si sentiva troppo grassa, avvenuto poche settimane fa mentre stavamo girando il film».

Lei è mai stato vittima di bullismo?

«Io grazie a Dio, no, però avevo molti compagni che erano bullizzati, purtroppo uno anche all’oratorio. Ricordo che la cosa mi faceva una grande tristezza, provavo molto compassione. Per fortuna, all’epoca, la cosa iniziava e finiva lì e non lo sapeva nessuno. Oggi se succedesse, verrebbe ripresa col telefonino e finirebbe online. Un disastro. Quello che possono fare i genitori è insegnare ai figli che il telefonino può essere uno strumento che può fare molto male».

A proposito di oratorio, cosa ha imparato?

«Io sono cresciuto all’oratorio di Osnago, fuori Milano, ci ho passato tutta la mia infanzia e adolescenza: mia madre mi doveva trascinare via di lì per portarmi a casa a cena. Avevo un prete che era fantastico, si chiama don Angelo e ci sentiamo ancora. Mi ha iniziato alla recitazione, perché la mia prima recita è stata proprio al teatro dell’oratorio».

Come è oggi il suo rapporto con la fede?

«Provengo da una famiglia molto cattolica, e sono cattolico e credente anche io. Cerco di insegnare i principi in cui credo a mia figlia in modo giocoso, le faccio dire le preghierine e la porto in chiesa. E lei mi pone delle domande pazzesche. L’altro giorno guardando Gesù in croce mi ha chiesto: “Papà, ma gli hanno fatto male?”. Mi viene da piangere a ripensarci».

Quindi, cosa farà Francesco Mandelli da grande?

«Se lei mi chiede “chi sei oggi?” io sono padre. La mia priorità oggi è mia figlia Giovanna. Il mio lavoro è una parte importante, ma non è più il centro della mia vita. Sto scrivendo un romanzo. Mia figlia è un’astronave, e a fine luglio debutterò al Festival di Nora in un monologo teatrale Title and deed di Will Eno, un flusso di coscienza di un profugo del palcoscenico. È un uomo che racconta il suo passato in un’altra nazione e il presente in un luogo straniero. La mia sfida è cercare un percorso professionale più adulto».

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