venerdì 10 maggio 2019
La kermesse si presenta come un lunapark che cerca di accalappiare lo spettatore accarezzandone il gusto, spesso folclorico, che si riflette in opere dove il divertimento rasenta il kitsch
«Mondo cane», installazione nel padiglione belga

«Mondo cane», installazione nel padiglione belga

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Il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, parlando a un gruppo di giornalisti invitati per un light lunch, martedì scorso ha fatto un rapido bilancio su come sia cambiata negli anni la funzione di questa mostra, che è la più antica del genere sulla scena internazionale. Limitandosi anche solo al periodo dal Dopoguerra in poi, quando nel 1948 ebbe luogo la prima edizione seguita alla pausa imposta dal conflitto mondiale, Baratta ha così riassunto l’andamento a grandi linee: la Biennale non è più uno spazio nel quale si tengono contemporaneamente tante personali o monografiche riunite sotto lo stesso cappello espositivo. Il modello era quello delle Kunsthalle, ed era anche la formula sulla quale si basò proprio l’edizione del 1948, dove nel padiglione greco era ospitata la collezione di Peggy Guggenheim che portava con forza alla ribalta la pittura astratta, e poi si potevano vedere mostre antologiche dedicate a Klee, Chagall, Arturo Martini (scomparso l’anno precedente), Kokoschka, Rouault, Picasso, Braque, Moore, Wotruba, gli espressionisti tedeschi, gli impressionisti... e molte di queste rassegne avevano curatori d’eccezione, Longhi, Argan, Guttuso, Arcangeli, Read, Ernst... Alle personali erano poi subentrate negli anni monografiche su gruppi ed esperienze nuove. Ma oggi, ormai da varie edizioni, non è più così. Era evidente dalla lieve tensione compiaciuta delle labbra mentre parlava, che Baratta identifica questa svolta anche con se stesso, da quando cioè salì al comando nel 2008, dopo brevi esperienze precedenti.

È scomparsa, ha detto, anche la figura dell’artista come “attore sociale”; non più dunque un propagatore dell’arte come sintomo delle malattie del proprio tempo, o per così dire del riflusso concettuale in realtà diventato lingua internazionale del nichilismo ascetico, dell’arte-nirvana o, peggio, dell’arte indistinguibile dall’oggetto comune secondo il principio che chiunque è artista e qualsiasi cosa può essere arte. Oggi, pensa Baratta, viviamo in una scena dell’arte superaffollata, e il compito dell’artista è portare un cortocircuito nella capacità dello spettatore di digerire ciò che un tempo si chiamava opera d’arte ma ora è inevitabile definire piuttosto oggetto artistico. L’artista non è più chi usando tecniche e linguaggi codificati (sempre soggetti a essere decostruiti e ricostruiti con ordine diverso) ci pone davanti a un’opera che interpreta criticamente un canone e una storia, che si introduce in una continuità con le dissonanze tipiche di ogni atto libero e autonomo (l’élan vital bergsoniano, per intenderci); no, oggi l’artista è total free, nel senso di totalmente libero e totalmente gratuito, usa le materie e i materiali che vuole come gli pare e piace. Non conosce il limite, perché il limite è contrario all’idea di libertà che passa nel nostro tempo. Un’arte che chiunque può fare e che non richiede la conferma di un giudizio critico è piuttosto uno spazio nel quale si entra e si esce come semplici comparse di una giostra che colpisce lo spettatore con trovate, provocazioni, esagerazioni, pensieri buoni (o malefici)...

È anche il senso dell’ammonimento compreso nel titolo della Biennale d’arte che apre i battenti domani: May You Live In Interesting Times, che tu possa vivere in tempi interessanti. Il saggio cinese che usava questo monito non intendeva, come molti si augurano oggi, vivete sereni; in realtà, questo invito a vivere tempi interessanti per i cinesi vale piuttosto come una maledizione perché quell’augurio ha a che fare con la complessità, demone della nostra era postmoderna. Ma quando Baratta nella presentazione in catalogo gioca sul doppio registro maledizione/opportunità, ecco che mette in campo senza dirlo una regola base del capitalismo a cui l’arte di oggi deve quasi tutto anche quando, come sostiene il curatore di questa edizione, l’americano Ralph Rugoff, cerca di essere il balsamo di una storia segnata dal colonialismo.

Se quella maledizione è ricaduta su di noi, come disse un diplomatico britannico, oggi è evidente che continua ad agire in un sistema dell’arte gravemente menomato e tenuto in pugno dal potere economico-culturale: Mercato-Musei-Case d’asta-Galleristi-Curatori. Ed è bene ribadire che i curatori non sono affatto necessariamente critici, sono manager che inventano contesti e messinscene di idee e concetti capaci di dare un retroterra a ciò che spesso sale alla ribalta solo per la determinazione (sostenuta dal denaro) di alcuni influenti personaggi. Oggi, per esempio, l’arte internazionale è dominata da una oligarchia, di cui fanno parte sul piano collezionistico-mercantilistico figure come Pinault e Gagosian.

Qual è il punto debole del sistema dell’arte? Senza dubbio la fine della critica d’arte. Senza la critica d’arte, manifestazioni come la Biennale diventano lunapark o teatri circensi. Si veda – come emblema – l’allestimento Mondo cane di Jos de Gruyter & Harald Thys nel padiglione belga che è un teatrino di finti vecchi automi: suonatori ciabattini arrotini e filatrici ma anche nuovi Frankenstein. Si ride anche, ma è appunto l’emblema di un baraccone dove ogni scelta ideale e artistica convive con l’altra annullandone il potenziale critico e la forza estetica. L’Arsenale presenta anche opere degne di nota e la cura impressa da Rugoff alla mostra è pulita, in parte richiama con minor forza evocativa l’allestimento della Biennale di Gioni. Si segnalano le installazioni di Alexandra Birken con tante figure umane nere (ombre?) afflosciate su scale e travi, il Microworld di Liu Wei con lastre di acciaio composte in un conflitto di vuoti e di pieni dentro una grande stanza, le tristi fotografie di Soham Gupta (non a caso intitolate Angst), e quelle ad altissima definizione di Anthony Hernandez su mondi fatiscenti e discariche e materie povere; e ancora: le grandi ruote da autocarro rivestite di catene e sospese a mezz’aria di Arthur Jafa, che mostrano come la scultura possa essere anche lontana dai canoni soliti (anche quelli poveristici appunto)... Sono emergenze che non indicano però nuove strade, un comune sentire, altri scenari dove leggere il futuro. Forse la maggior coagulazione nel modo di vedere viene dai Paesi asiatici, e questo testimonia semmai come il dominio del mercato americano sia messo a dura prova anche nell’arte dal mondo cinese, indiano e giapponese.

Penso che con questa Biennale dovrebbe chiudersi un ciclo, che ha assecondato la dittatura dello spettatore cioè ne ha accarezzato gli istinti consumistici e ludici ma senza scavare nelle contraddizioni del nostro tempo anche prefigurando un dissonante ritorno alle forme e alla capacità tecnica di ordinarle. Al contrario di quel che pensa Baratta, se questa Biennale è diventata il modello per altre manifestazioni analoghe (ma non Documenta, per esempio), forse è il momento di fare scelte diverse e tornare al passato, a una Biennale-Kunsthalle dove il modello espositivo riviva in forme nuove. Del resto, Baratta sa bene che questa formula non è mai tramontata, si è soltanto dislocata su tutta Venezia, in una sinergia con altre istituzioni che aiuta la Biennale a fare risultato. In questi giorni si sono aperte in Laguna mostre di Burri, Baselitz, Scully, Forg, Kounellis, Immendorf, Gorky, Halley... Ridefinendo il modello, si deve tornare e riconoscere un ruolo centrale alla critica.

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