giovedì 24 giugno 2010
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La rivista MicroMega ha dedicato il Supplemento 4/2010 al tema «L’inganno della Sindone». Anche a distanza di qualche tempo sembra opportuno rispondere a quanto scrive lo studioso Mauro Pesce nel suo articolo «I Vangeli e la Sindone» (pp. 15-26). Del resto le molte domande di cui il suo pezzo è costellato sembrano voler provocare ad un dibattito non fittizio.Pesce – autore del discusso Inchiesta su Gesù (Mondadori) insieme al giornalista Corrado Augias – chiama in causa il senso della venerazione alla Sindone: «Perché mostrarla?» (p. 15); «A che cosa serve?»; «Che tipo di religione suggerisce alle folle, ai credenti e ai non credenti?» (p. 26); «Mi domando perché la Chiesa cattolica italiana metta oggi così grande impegno a sostenere l’autenticità di questo pezzo di stoffa» (p. 15). Stupito dalle iniziative e pubblicazioni prodotte attorno all’ostensione, conclude: «Evidentemente l’idea dell’autenticità del lenzuolo è penetrata capillarmente in ogni settore di base della Chiesa cattolica» (ibidem).Ciò va rettificato. La Chiesa non insegna affatto l’autenticità della Sindone conservata a Torino: afferma anzi di non avere competenza al riguardo, non trattandosi di oggetto di fede, ma di studio per le scienze naturali e storiche. Da parte della Chiesa si ammette la prosecuzione di un plurisecolare culto di «venerazione» (e non di «adorazione» come impropriamente afferma Pesce) della «nobile icona» della Sindone. Facendo propria un’espressione di san Basilio (IV secolo), il concilio Niceno II (VIII secolo) afferma che la venerazione «attraverso l’immagine, passa al prototipo». Dunque nella venerazione delle reliquie o delle immagini il culto non termina alla materia, ma alla realtà spirituale indicata: un santo o lo stesso Signore. E ciò a differenza dell’adorazione, che si rivolge direttamente a Dio solo.Il noto, e per molti aspetti benemerito, storico vede in tali pratiche una radicale discontinuità col cristianesimo delle origini, religione della Parola e del culto «in Spirito e verità», che si contrapponeva al paganesimo anche per l’assenza di realtà materiali e di luoghi «sacri». Effettivamente i Padri dei primi secoli, come gli iconoclasti dei secoli successivi, avrebbero concordato nell’affermare che l’essenza del culto cristiano consiste nel sacrificio spirituale, cioè nella vita. Ciò resta pienamente attuale e induce a vigilare su ogni sconfinamento, sempre possibile, nella superstizione.Ma se per i primi due secoli non abbiamo resti e documenti sulle immagini di devozione, è storicamente innegabile il precoce localizzarsi, almeno a partire dalla fine II secolo, di un «sacro» cristiano nelle sepolture dei corpi ritenuti eminentemente «santi»: gli apostoli e i martiri. Essendo per i fedeli certa la partecipazione di questi testimoni alla gloria del Cristo, i loro resti mortali destinati alla resurrezione – e per estensione le loro vesti, i loro oggetti – furono venerati perché considerati portatori dello spirito divino, che ha nel corpo il proprio tempio (cf. 1Cor 6, 19). Immagini cristiane esistono almeno dagli inizi del III secolo. Il cardinale di Vienna Christoph Schönborn ha mostrato l’importanza della riflessione cristologica nell’evoluzione del comportamento cristiano verso le immagini. Dacché la carne è stata assunta dal Verbo (cf. Gv 1, 14) – il quale si è reso così visibile e conoscibile – essa è divenuta «luogo» adeguato dell’epifania del divino: contiene e media la realtà che esprime. Non dissimilmente dalla reliquia, anche l’immagine di Cristo e dei santi fu quindi considerata un sostituto della loro presenza: realtà sim-bolica che – richiamando e «rappresentando» l’intero da cui è tratta – in certo modo lo evoca. È ovvio (mi si passi la banalità) che nessun innamorato si accontenterebbe della foto, di un pegno o di una ciocca di capelli dell’amata; tuttavia può trarne un certo più intenso ricordo e una consolazione.Tale sviluppo dottrinale è coerente con le origini cristiane, affondando i suoi presupposti nei testi giovannei e paolini sopra richiamati: l’incarnazione di Dio e la divinizzazione dell’uomo in Cristo. Coerente anche se non essenziale. L’utilità delle immagini non significa, almeno nel cattolicesimo, necessità per la salvezza o per la fede. Leggermente diversa è la posizione dei cristiani delle Chiese d’Oriente (presenti in gran numero all’ultima ostensione!), secondo cui senza immagini e reliquie non si è pienamente nell’Ortodossia. Ma vi sono anche ottimi protestanti, e forse cattolici, i quali ritengono di poter vivere la loro fede senza altra «icona» di Cristo che la Parola o, tutt’al più, la croce. In linea di principio si è cristiani «completi» senza inclinazione per alcuna icona, reliquia o luogo di pellegrinaggio. Qui non siamo affatto lontani dallo spirito dei primi secoli.La tradizione cristiana nel suo complesso – e il cattolicesimo in modo particolare – si presenta dunque pluralista su questo e molti altri aspetti. La sensibilità, oggi provvidenzialmente sempre più diffusa, verso una più profonda unità tra battezzati richiede più che mai di accogliersi nelle reciproche differenze. Educarsi alla conoscenza e al rispetto di una molteplicità di «cristianesimi» (non ci insegnano gli storici che tale era la situazione delle origini?), portato di storia e tradizioni che sono anch’esse frutto dello stesso Spirito. Ciò aiuta anche a comprendere sempre meglio quanto è davvero irrinunciabile, distinguendo dalle pur legittime tradizioni in cui ciascuno è stato educato.Nel suo articolo Pesce ricorre insistentemente all’argumentum e silentio, ripetendo che nessun evangelista o commentatore antico parla di recupero del lenzuolo sepolcrale di Gesù (p. 17,18, 20, 22, 25), o di immagine impressa (p. 18, 21, 22, 25). Ma «non di rado i reperti antichi compaiono senza altra notizia di sé che la propria stessa realtà» (G. Ghiberti). Il silenzio sulla Sindone delle fonti del primo millennio è una carenza che non ne rende impossibile l’esistenza (contra factum non datur argumentum), nè una datazione all’epoca proto-cristiana: costituisce piuttosto una «provocazione all’intelligenza» (Giovanni Paolo II) ed un ulteriore stimolo all’indagine su di un documento del passato.Se, come afferma lo stesso Pesce, nel corso della sua formazione cattolica e in seguito egli non si è «mai imbattuto in qualcuno che proponesse la Sindone come un punto di riferimento importante» (pp. 15-16), ciò conferma che la Chiesa non fa dipendere da essa ciò in cui crede e la sua stessa credibilità. Essa non ha nulla di essenziale da perdere se la Sindone si dimostrasse non autentica. Soprattutto va smentito quanto, sia pure dubitativamente, Pesce insinua: che la promozione di «forme di culto più o meno feticistiche» (sic!) rappresenti un’alternativa «alla meditazione, alla lettura della Bibbia, alla preghiera personale» (p. 17). Forse mai come oggi vi è stato impegno per una predicazione autenticamente biblica, testimoniato da una ricca e costante produzione di studi e strumenti (incomparabile a quella riguardante la Sindone), oltre che dall’ampia offerta di proposte formative. Le scelte del Vaticano II di promuovere il più ampio accesso alla Scrittura e persino alla teologia da parte dei fedeli, di farne il centro della catechesi, della liturgia e della institutio dei candidati ai ministeri, sono – pur tra le obiettive difficoltà e carenze – un punto di non ritorno, serenamente recepito e intensamente vissuto dal cattolicesimo odierno.
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