domenica 20 novembre 2022
L’“Opera omnia” della filosofa esce in Italia in prima mondiale. In questo inedito il filo rosso che unisce due Andromache, la pagana del poema antico e quella ebraico-cristiana
Rachel Bespaloff (1895-1949)

Rachel Bespaloff (1895-1949) - -

COMMENTA E CONDIVIDI

Con la sua voce, con le sue lacrime, con il suo «riso in pianto» e il turbamento della sua limpida grazia, con la fermezza dei suoi accenti in cui la tenerezza non ha nulla dell’insulsaggine, Andromaca – pienamente donna nella maturità del suo giovane amore, e forse la più donna fra le eroine dell’antichità – fin da subito seduce Racine. Se costui prende in prestito il soggetto della propria tragedia da Virgilio e da Euripide, è però a Omero che deve la scoperta di Andromaca. Fedele allo spirito e al testo dell’Iliade, egli ha voluto «che Andromaca non conoscesse altro marito che Ettore né altri figli che Astianatte». Per quanto diverse ci appaiano la giovane troiana di origine contadina e principesca, vicina alla terra e alle sorgenti, e la gran dama francese che recita sottilmente, docilmente, una parte terribile, esse conoscono il medesimo destino e lo compiono con lo stesso pacato fervore. Questo contegno, questo ritegno, che lo scoppiare del lamento infrange, costituisce in entrambe la fine armatura della pienezza. Di questa felicità così intimamente unita alla sostanza del loro essere, che non può esser loro presa se non con la vita, esse incarnano sia la vulnerabilità sia la perennità. Il palazzo di Pirro ove la ferocia si maschera, temporizza, non è così lontano dalle alte dimore di Ilio che la guerra ha svuotato (…). Tramite la sola giustezza del tono, Racine ritrova il segreto della purezza antica. A venti secoli di distanza, l’Andromaca pagana e l’Andromaca cristiana ci toccano con lo stesso fascino mattutino che si circonda di freschezza nella calma raggiante di un amore dove tutte le tenerezze si congiungono in una sola. Qui, la vocazione all’unicità si confonde con la vocazione alla felicità. Ma questa felicità, Omero e Racine ce la mostrano soltanto minacciata o colpita. Essa traspare attraverso le nubi sempre più grandi del disastro, come se la sua presenza potesse rivelarsi soltanto nel momento in cui la distruzione incombe su di lei, o quando l’abbia già colpita. L’immagine tenera e severa che i due poeti ci hanno lasciato di questa affinità assoluta tra due esseri, di questa scelta instancabilmente rinnovata, non è meno ricca, quanto a sostanza del reale, della loro evocazione della fatalità eroica come la incarnano Elena e Fedra. Alla satira coniugale della commedia olimpica si oppone, nell’Iliade, il dramma dell’amore unico, il solo capace di affrontare il giorno polveroso della pace quotidiana e la notte selvaggia della catastrofe. In esso il sacro e il banale si impregnano l’uno dell’altro nel corso dell’esistenza: Ettore, «guardando il bambino, sorrise in silenzio: ma Andromaca gli si fece vicino piangendo, e gli prese la mano, disse parole, parlò così: “Misero, il tuo coraggio ti ucciderà…”». Dopo Omero questa nudità della voce appartiene soltanto a Racine. Si ritrova qui la misteriosa conformità delle due civiltà ugualmente tese verso la purezza, l’unicità e la perfezione – civiltà di incrocio in cui il genio guerriero d’Occidente è stato fecondato dall’ispirazione dell’Oriente religioso. Ciò che l’Asia fu per Omero, l’Oriente biblico ed evangelico lo è per Racine. Da questo contatto, da questo incontro nasce una poesia in cui la seduzione del vero e la fascinazione del bello si esaltano reciprocamente, un’arte della dizione del vero spinta fino a una sorta di assoluto sensibile, insomma un’immagine dell’esistenza fondata su un certo modo di misurare la vita fra l’irreparabile e l’eterno, che continua a rinnovare la nostra coscienza di noi stessi e del mondo. Omero e Racine vi offrono il loro messaggio soltanto di persona, e come presenti a ogni sillaba dei loro versi, non come individui provvisti di una biografia, ma in qualità di “cantori”, davanti a un uditorio attento a ogni sfumatura del tono, a ogni inflessione del ritmo. Affinché la poesia non muoia nel fango dando una parola a ciò che non è altro che un’enorme inerzia del patire, o muta oppressione di un impotente giubilo, è necessario che si renda impermeabile alla realtà che ci restituisce, che la annienti per poterla ricreare come immagine, visione. Fusa così alla sostanza del verso la cui compatta perfezione non lascia filtrare alcun elemento impuro, la verità si mostra nell’incandescenza del concreto, e ci soggioga. Ma no, il verso, qui, non è il rivestimento poetico della verità, la carne che essa abita, è ancora, e soprattutto, l’anima che essa fa ardere. Fra i più grandi, non vedo alcun poeta che ci riveli al pari di Omero e di Racine la misteriosa affinità della perfezione formale e del vero. Tutto avviene come se questa stessa perfezione fosse, ormai, parte integrante di questa vita e non la meno preziosa: dalla negazione della realtà, essa fa sorgere il reale. «Tu non m’hai tesa la mano dal letto, morendo, non m’hai detto saggia parola, che sempre potessi avere presente, notte e giorno, tra il pianto!». Attraverso tante notti di oblio e di storia, il lamento di Andromaca, partito dalle rive omeriche si ripercuote fino ai confini del nostro mondo devastato.

(Traduzione di Annalisa Comes)

Con Šestov tra epos greco e profeti verso un'etica della vita nell'istante

«Il cristianesimo ha operato una sintesi prodigiosa tra la religione messianica e le filosofie mistiche della Grecia, nel momento in cui la distanza tra l’ebraismo e l’ellenismo era maggiore. Ma occorre risalire più indietro, fino ai grandi lirici della Giudea, fino ai tragici e a Omero, per scoprire il fondamento comune del pensiero greco e del pensiero ebraico. Vi sono più affinità reali tra il vigoroso pessimismo di Esiodo e la stimolante amarezza di un Osea, tra la rivolta di Teognide e le apostrofi di Abacuc, tra le lamentazioni di Giobbe e le trenodie di Eschilo, di quante ve ne siano tra Aristotele e i Vangeli. Una sintesi tra questi elementi puri non sarebbe stata possibile, né d’altronde desiderabile. Ma c’è, ci sarà sempre, un certo modo di dire il vero, di proclamare il giusto, di cercare Dio, di onorare l’uomo, che ci è stato insegnato all’inizio e non cessa di esserci insegnato di nuovo, dalla Bibbia e da Omero». È qui, nella meditazione dei profeti e dell’epos omerico, che può scorgersi la possibilità di un’etica intesa come «una scienza dei momenti di smarrimento totale, in cui la decisione è imposta dall’assenza di altre scelte». Un’etica, dunque, che non precede o trascende la vita, ma ne è compagna indisgiungibile. Il pensiero non può abbandonarsi a scorciatoie razionalistiche: non si dà alcuna mediazione nell’esistenza, trovandosi tragicamente l’uomo dinanzi alla sua incommensurabilità nei confronti della realtà. Diversamente non poteva essere per Rachel Bespaloff (1895-1949), risvegliata alla filosofia da Lev Šestov. E alla pari di lui coinvolta in una pugna spiritualis per fare fronte all’umana inconciliabilità dell’esistenza, alla cerca dell’eternità nell’istante. Solo di recente Bespaloff ha beneficiato di una riscoperta editoriale, che l’affianca non solo a Hannah Arendt e Simone Weil, ma anche ai vertici del pensiero esistenziale del Novecento. La filosofa, bulgara di natali ma adottata culturalmente da Parigi, prima di emigrare negli Stati Uniti nel 1942 per sfuggire alle persecuzioni antisemite, ha ora l’opportunità di uscire dall’ombra in cui si era rinserrata anche per la sua ritrosia a rendere pubblici i suoi lavori. L’editore Castelvecchi, per primo al mondo, ha avviato coraggiosamente la pubblicazione in quattro volumi delle opere complete della filosofa, comprendenti anche tutti i manoscritti e dattiloscritti inediti e gli epistolari. Il prossimo venerdì uscirà in libreria il primo volume, L’eternità nell’istante. Gli anni francesi (19321942) (pagine 668, euro 30,00), curato da Cristina Guarnieri e Laura Sanò e con la prefazione di Monique Jutrin, da cui è tratto l’estratto dell’inedito Le due Andromache, pubblicato qui sopra. E mai titolo descriverebbe meglio la quête esistenziale e teoretica di Rachel Bespaloff per cui «l’istante non sarebbe niente se non contenesse una possibilità illimitata di resurrezione, se l’eterno in esso non rinascesse dall’effimero e se questo doloroso parto non fosse indefinitamente rinnovato.

Simone Paliaga



© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: