domenica 10 dicembre 2017
I due, allora trentenni, hanno dato vita a un’architettura anarchica e libertaria, erede del '68, ma anche al prototipo del museo-cattedrale e del museo-monstre, autonomo dalla storia e dal contesto
Il Beaubourg con sullo sfondo, la basilica del Sacro Cuore a Montmartre

Il Beaubourg con sullo sfondo, la basilica del Sacro Cuore a Montmartre

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La società del consumo, la nostra, è la società della Fun immersion. L’emblema della società del divertimento, o dello spettacolo se si vuole, si deve a un architetto inglese che sperimentò soluzioni dove il rapporto tra spazio architettonico e funzione doveva essere, utopisticamente, liberato da ogni immobilismo. Cedric Price nel 1961 elaborò il progetto del Fun Palace, il "Palazzo del divertimento", un teatro pensato come macchina scenica mutante, transformer per così dire, con piattaforme mobili e una completa meccanizzazione. Un’architettura concettualmente provvisoria (doveva durare soltanto dieci anni), una specie di spazio-automa, multifunzionale e metamorfico, libero da ogni legame col canone e la storia dell’architettura.

L’aggettivo più calzante sarebbe: indeterminato, uno spazio “sempre-mutante”. Non aveva in sé preoccupazioni eticosociali come quelle degli architetti modernisti che volevano cambiare il mondo determinando la forma dell’abitare. Price prefigurava piuttosto a una utopia immaginifica sorta dall’intuizione precoce dei prossimi sviluppi sociali: egli vide in anticipo che il tempo libero sarebbe stato il tema decisivo dell’Occidente ricco (mezzo secolo dopo, quell’intuizione va aggiornata alla luce della globalizzazione, ma non era e non è sbagliata). Price, in sostanza, comprese che cultura e merchandising erano il binomio trainante di una economia sempre più terziaria e oggi guidata dalle tecnologie più sofisticate della comunicazione.

Se gli anni Sessanta furono un periodo di grande crescita economica, già alla fine di quel decennio però le idee di libertà dai dogmi ereditati e dal giogo dei padri portò al Maggio francese, con riverberi anche in Italia e Germania. Rivolte rese possibili dal benessere, non nate anzitutto da un popolo di lavoratori sfruttati (in Francia questo conflitto fra studenti e operai pesò parecchio: i primi si sentivano i veri rivoluzionari, i secondi non compresero, soprattutto all’inizio, l’essenza di quel movimento giovanile).

Nel 1969 Georges Pompidou intercettando le nuove domande generazionali, pensò di dotare Parigi di un centro della creatività e della cultura e individuò nel Plateau Beaubourg – il nome deriva da un villaggio che nel XII secolo venne inglobato nella città di Parigi con la Cinta di Filippo Augusto –, un’area enorme dove far sorgere questa cittadella culturale, coniugandovi anche il risanamento delle Halles. La scelta del progetto vincitore arrivò nel 1971. L’anno dopo cominciavano i lavori di questo concentrato di tubi e ferraglia che ha segnato non soltanto l’epoca, ma il modo di pensare tutti gli spazi espositivi, culturali, scenici eccetera.

Gli autori dell’impresa furono due giovani architetti: il nostro Renzo Piano e l’inglese Richard Rogers, e la loro proposta venne preferita fra le quasi 700 presentate. Oggi Piano confessa: «Ci abbiamo provato, non abbiamo mai pensato di vincere quel concorso». L’edificio venne ultimato e inaugurato il 31 gennaio 1977 dal presidente Valéry Giscard d’Estaing. Cade dunque quest’anno il quarantesimo della sua fondazione, e il Beaubourg da mercoledì prossimo dedica a se stesso e ai suoi due artefici una mostra che spiega il progetto e illustra la loro opera di architetti.

Il Centre Pompidou è visitato ogni giorno da migliaia di persone e nell’arco di quarant’anni ne ha accolte nei propri spazi oltre 250 milioni. Ha l’aspetto di una nave spaziale atterrata nel cuore della vecchia Parigi. Guardandola dal cielo, la machine-Beaubourg impressiona per la mole colossale, qualcosa che storicamente si ritrova soltanto nelle cattedrali europee, che erano il centro simbolico delle città. Per cui dobbiamo pensare che quell’edificio fuori scala sia una nuova cattedrale della cultura, della creatività, del divertimento.

In epoca più vicino a noi è stato coniato un termine, riferito all’architettura spettacolare che abbiamo visto fiorire un po’ ovunque e quasi sempre identica nelle forme: Bigness. La Grande Dimensione: che potrebbe far pensare a una valenza metafisica, ma in realtà esprime la totale immanenza e indifferenza dell’oggetto architettonico rispetto a ogni storia che lo precede. Il termine venne impiegato dall’architetto Rem Koolhaas per definire un’architettura abnorme rispetto al contesto urbanistico nel quale viene a collocarsi, che impone la propria misura e qualità formale, con totale indifferenza verso ciò che la circonda; Bigness esula da ogni questione urbanistica, perché afferma la propria autonomia dalla storia e dalla tradizione che segna le città; è l’imperio di un meteorite cascato dal cielo e non si sa se e quando verrà rimosso dalla città sulla quale è caduto.

In effetti, il Beaubourg è l’erede diretto del Fun Palace di Price. È l’“utopia realizzata” di un’architettura anarchica e libertaria, adattabile, trasformabile, pronta a farsi semplice guscio che si adatta a ogni flessibilità corporea. Accoglie in sé un centro del design industriale, spazi espositivi temporanei, un museo d’arte moderna, una biblioteca e un centro della musica, ristoranti e punti d’informazione. Oggi, rispetto alla struttura di tubi e altri elementi costruttivi in ferro disegnati “artigianalmente” da Piano, rivestita di vetro e con alcuni elementi interni smontabili, con la scala mobile che corre lungo la facciata dentro una sorta di cilindro vetrato, il Beaubourg ha subito alcuni rimaneggiamenti interni (il più importante quello di Gae Aulenti, incaricata da Mitterrand di dare maggior articolazione al Museo d’arte moderna – che accoglie capolavori di Chagall, Rouault, Picasso, Matisse e altri –, ripensamento che ha in parte “normalizzato” il concetto di spazio fluido e flessibile su cui l’edificio era stato concepito.

«Fu un gesto ribelle» ha detto Piano. È vero. A suo modo, la risposta positiva e piena di sfrontatezza a un clima di sovversione che preparò gli “anni di piombo”. Il Beaubourg esprimeva, infatti, sincerità (nessuna differenza fra struttura ed estetica dell’edificio), trasparenza (era un edificio vetrato senza grandi elementi di divisione interna, una specie di Crystal Palace della cultura), uguaglianza fra le funzioni (il design e i più grandi geni moderni della pittura e la scultura, della musica e la poesia, dello studio e lo svago mischiati fra loro). Un teorema materiale, fisico, della nuova stagione di libertà invocata da una generazione un po’ velleitaria che voleva cambiare tutto: «Lo stesso bando di gara – ha detto Renzo Piano – suggeriva di uscire dalle frontiere tipiche delle biblioteche e dei musei. Parlava di cultura ma come multifunzionalità».

Se – come scrisse il critico Herbert Muschamp a proposito del Fun Palace – Price «introdusse l’idea che una struttura architettonica fosse in grado di sorgere sopra il disordine senta tentare di porvi rimedio », allora potremmo dire che il Beaubourg fu una sorta di rappresentazione delle riflessioni di Foucault sulla “volontà di sapere” e del ”panopticon” come strumenti del potere per controllare gli individui, ma di segno rovesciato: qui la totale libertà di spazio e di fruizione, l’openspace, sono l’affronto ludico verso un potere all’epoca giudicato autoritario come quello dei padri.

Potremmo considerare l’“utopia realizzata” del Beaubourg un simbolo degli anni Settanta; dove invece il Museo d’Orsay di Gae Aulenti, attraverso il kitsch che fonde tecnologia moderna e patina pompier, incarna la “restaurazione” anni Ottanta (stagione socialista); mentre – fuori dalla Francia – il Guggenheim di Bilbao di Frank O. Gehry esprime il totale individualismo capitalista dell’architettura lunapark anni Novanta; e ora il Louvre di Abu Dhabi, progettato da Jean Nouvel e inaugurato lo scorso 11 novembre da Macron, riafferma una politica francese dell’egemonia internazionale che conclude e archivia il postmoderno recuperando, come mera allusione, il kantiano “cielo stellato sopra di me”. Ma la cupola di Nouvel è talmente ribassata e “terrestre” che, tutt’al più, può simboleggiare il razionalismo tecnologico che aspira a dominare il mondo sostituendosi alla volta celeste. Ma con questo potere della ragione la Francia si trova perfettamente a suo agio.

Il Beaubourg è ancora un esempio adeguato al nostro tempo? Forse, da una certa distanza di osservazione, potrebbe anche sembrare un ferrovecchio della modernità. Certo, ha cambiato il modo di pensare l’intervento nei centri storici con edifici dalla mole fuori scala e dissonanti nell’estetica. L’idea dei funzionalisti storici era che la “forma segue la funzione”, dunque di un’architettura trasparente alla sua funzione e che non si connota per uno stile che la renderebbe decorativa. L’idea non regge: “nessuno stile” è come dire che non esistono differenze storiche. Sappiamo bene che il funzionalismo, il suo stile da furiere che il Beaubourg rende con enfasi quasi snob, era proprio uno stile, e la mostra allestita da Philip Johnson negli anni Trenta lo lanciò come International Style. Beaubourg resta un esempio che, tuttavia, non ha prodotto edifici a esso paragonabili (un unicum per rigore e felicità di messa in opera); forse, fu un esercizio di ammirazione di due giovani architetti di talento per il vecchio, immaginifico Cedric Price.

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