venerdì 28 febbraio 2020
Nella città ucraina a cominciare dal ’41 i tedeschi disposero a strati in una fossa comune 70mila ebrei. Un libro della storica Salomoni recupera testimonianze a lungo nascoste
Una SS tedesca tra i cadaveri del massascro perpetrato a Babij Jar presso Kiev nel settembre del 1941

Una SS tedesca tra i cadaveri del massascro perpetrato a Babij Jar presso Kiev nel settembre del 1941 - .

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Nel romanzo Le benevole di Jonathan Littell, uscito in edizione italiana da Einaudi nel 2007, una delle cose che più colpisce e devasta il lettore è il racconto del protagonista Maximilien Aue, impegnato dal 1941 sul fronte orientale della Seconda guerra mondiale, fra i terribili Einsatzgruppen, sulla dinamica della cosiddetta Shoah delle pallottole. Per risparmiare tempo nell’opera di liquidazione degli ebrei, i nazisti usavano la tecnica delle 'sardine': costringevano le vittime a sdraiarsi l’una sull’altra in fosse naturali o scavate appositamente e le colpivano una per una alla nuca; poi cospargevano i corpi con uno strato di terra e facevano sdraiare i gruppi successivi sui cadaveri, disponendoli alternativamente dalla testa e dai piedi. Pochissimi riuscivano a scampare. Leggere le pagine che descrivono la pratica del Sardinenpackung, come la chiamavano i tedeschi, è un pugno nello stomaco. Nella sua meticolosa e diabolica rappresentazione, Littell esprime un certo sadismo, tanto che non pochi critici l’hanno accusato di voyeurismo. Il rischio è dare vita a una letteratura del male inteso come perversione. Non così uno dei più grandi romanzi sui totalitarismi del ’900, Vita e destino di Vasilij Grossman, che durante il conflitto fu reporter al seguito dell’Armata Rossa, prima di prendere le distanze dal regime comunista. Era nato a Berdicev in Ucraina e fra i primi ha documentato la battaglia di Stalingrado e la progressiva reazione dei russi all’avanzata nazista. Durante il viaggio verso ovest (sarebbe stato anche il primo a entrare nel lager di Treblinka) giunse nella sua cittadina e qui apprese della sorte della madre, anch’essa vittima dei reparti comandati da Heydrich.

Ma si sarebbe ben presto reso conto di un’altra verità: pure la Russia di Stalin e Chruscev, allora leader dell’Urss in Ucraina, odiava gli ebrei. In quei territori molti comuni cittadini hanno ampiamente collaborato con l’occupante nazista nell’opera di sterminio, per invidia e per accaparrarsi i loro beni. Nella sola Berdicev trentamila ebrei erano stati fucilati e gettati nelle fosse comuni e molti erano stati 'venduti' dagli stessi ucraini. Ma l’evento più increscioso avvenne a Babij Jar, una gola situata vicino a Kiev, dove in soli due giorni, fra il 29 e 30 settembre 1941, le truppe naziste uccisero a colpi d’arma da fuoco 33.771 ebrei, come reca scritto il rapporto ufficiale n. 101 sull’attività dell’Einsatzgruppe C, redatto il 2 ottobre, ove fra l’altro si legge: «La popolazione ha un atteggiamento estremamente ostile nei confronti degli ebrei. L’azione è stata condotta con facilità e non vi è stato alcun incidente. La popolazione ha approvato il piano di trasferimento degli ebrei in un’altra località. È difficile che si sia saputo che gli ebrei, in realtà, sono stati liquidati. In ogni caso, stando all’esperienza sinora acquisita, ciò non provocherebbe alcuna reazione». L’atto è contenuto nel volume di Antonella Salomoni Le ceneri di Babij Jar. L’eccidio degli ebrei di Kiev uscito per il Mulino. La studiosa, che è ordinario di Storia contemporanea all’università della Calabria e incaricato di Storia della Shoah e dei genocidi all’università di Bologna, si è a lungo occupata del rapporto fra l’Urss e l’Olocausto e qui ricostruisce con ricca documentazione cosa avvenne in quei giorni. Non solo: nel libro si dà conto della cancellazione della memoria da parte dei tedeschi e soprattutto da parte dei russi, i quali per decenni annoverarono quanto accaduto come una strage di cittadini sovietici, censurando il fatto che le vittime erano tutte ebree. Kiev fu liberata il 6 novembre 1943 e pochi giorni prima proprio Grossman così scriveva in una corrispondenza inviata dalle vicinanze della città: «Le persone giunte da Kiev raccontano che i tedeschi hanno cinto con un anello di truppe una enorme fossa a Babij Jar, dove erano stati gettati i corpi di 50.000 ebrei, uccisi a Kiev alla fine di settembre del 1941. I tedeschi disseppelliscono febbrilmente i cadaveri e li bruciano. Possibile che siano così folli da credere di poter coprire le proprie terribili tracce? Tracce impresse in eterno con le lacrime e il sangue dell’Ucraina, che si stagliano anche nella notte più oscura».

Già nel 1942, nel timore che i leader nazisti potessero essere processati in caso di sconfitta della Germania, Himmler aveva dato disposizione di rimuovere le prove degli stermini e così accadde a Baij Jar nell’estate del ’43. Con l’ausilio di decine di escavatori e di circa 300 internati del campo di concentramento di Syrec, fra cui un centinaio di ebrei, migliaia di cadaveri vennero dissotterrati e arsi. In tutto sono stati calcolati 70.000 corpi: nell’enorme e profonda fossa vicino a Kiev dunque erano finite anche tante altre vittime, trucidate nelle settimane successive all’eccidio del 29 e 30 settembre 1941. Una testimone ha detto: «In quella gola, giorno e notte, ardeva un rogo con un fumo nero e un odore insopportabile». Un altro corrispondente di guerra, Boris N. Polevoj, tra i primi a entrare a Kiev con l’esercito russo, fece questo resoconto: «La città stava ancora bruciando. Ma tutti noi corrispondenti eravamo impazienti di andare a Babij Jar. Ne avevamo sentito par- a più riprese, ma occorreva vedere tutto di persona». Ed ecco cosa raccontò una volta giunto sul posto: «Vedemmo qualcosa di inconcepibile: una sorta di giacimento geologico della morte, un monolito pressato di resti umani tra gli strati di terra. Nemmeno nel sogno più orribile apparirà mai qualcosa di simile. Non ho visto nulla di più spaventoso in tutta la guerra. Dopo ci furono Auschwitz, Dachau, Buchenwald, decine di altri luoghi dello sterminio di massa. Ma il più spaventoso, il più inconcepibile alla mente umana era là, a Babij Jar». La città di Kiev era stata presa dalle forze di Hitler il 19 settembre 1941 dopo oltre due mesi di assedio: dunque i tedeschi avevano impiegato solo dieci giorni per predisporre l’annientamento degli abitanti di origine ebraica, quasi tutti anziani, donne e bambini, visto che gli uomini erano stati arruolati nell’esercito sovietico. Secondo il censimento del 1939, nella città ucraina vivevano 224.326 ebrei, pari al 26,48 per cento, un terzo dei quali fu evacuato nelle retrovie; nel censimento fatto nel 1942, ne risultavano presenti soltanto 20. Pochissimi erano riusciti a scappare o a sopravvivere alle stragi.

Finita la guerra, ben pochi di coloro che si erano salvati vi fecero ritorno. «Non abbiamo affatto bisogno degli ebrei nella nostra Ucraina», aveva dichiarato Chruscev, a capo del governo di Kiev dal 1944 al ’47. Così, ogni tentativo di commemorazione da parte ebraica sino al crollo dell’Urss è finito nel vuoto. Quando nel 1965 venne decisa la costruzione di due monumenti, lo si fece in onore dell’Armata rossa, senza mai menzionare gli ebrei. Il che fece inorridire Elie Wiesel, giunto nel 1979 a Kiev a capo di una commissione d’inchiesta sull’Olocausto voluta dagli Usa. Egli provò «furore e sconforto », ancor più di quando era venuto da privato cittadino nel 1965 e aveva trovato omertà e disinteresse su Babij Jar. Poeti e scrittori come Erenburg ed Evtusenko hanno narrato l’eccidio, ma hanno visto le loro opere censurate. Dopo il 1991 la verità è stata solo in parte ripristinata e oggi compaiono varie lapidi e monumenti in ricordo della morte di ebrei e non ebrei: «L’intera zona - conclude Salomoni - è diventata oggetto di competizione tra gruppi e comunità». Con la fine del comunismo, i conti con la storia sono ancora aperti, anzi si assiste a una nazionalizzazione esasperata della memoria: la centralità della Shoah scompare e diventa degno di ricordo solo l’antitotalitarismo rivolto verso i crimini dell’Urss. In questa confusione, non va certo dimenticata l’iniziativa di un sacerdote francese, Patrick Desbois, il quale ha ricostruito a partire dal 2002, visitando villaggi e ritrovando testimoni, l’Olocausto per fucilazione, che solo in Ucraina ha fatto quasi un milione e mezzo di vittime.

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