giovedì 6 settembre 2018
Lo scrittore Richard Flanagan che presenta a Mantova il romanzo “Prima persona” denuncia: «Il mio Paese si sta macchiando di un comportamento orribile»
Migranti singalesi approdano in Australia Occidentale

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L’Australia è un grande Paese che ama le piccole parole. «Noi aussie abbreviamo tutto, è una nostra abitudine – spiega lo scrittore Richard Flanagan –. Dal punto di vista linguistico, selfie è un’invenzione australiana. La parola, intendo, non la pratica: quella dilaga dappertutto e non è un buon segno, neppure per la letteratura ». Vincitore del Man Booker Prize nel 2014 per La strada stretta verso il profondo Nord , in questi giorni Flanagan è ospite del Festivaletteratura, dove presenterà il suo nuovo romanzo, Prima persona (traduzione di Alessandro Mari, Bompiani, pagine 432, euro 20,00: l’incontro è in programma sabato alle ore 15.30 presso l’Officina del Gas). «Nella letteratura di lingua inglese – spiega – è molto diffusa la tendenza al memoir, all’autobiografia dettagliata e senza filtri. Il rischio, a mio avviso, è che questa narrativa di sé diventi narrativa del selfie, in un misto di solipsismo e narcisismo che contraddice la natura più autentica della letteratura».

A che cosa si riferisce?
«Alla possibilità di vivere esperienze che altrimenti ci sarebbero precluse. Le vicende di un personaggio d’invenzione, spesso, offrono una visione del mondo più ricca e articolata del mero resoconto del “come sono andate le cose”. In questione non c’è la qualità della scrittura, ma la consapevolezza che, se non ci fosse la letteratura, dovremmo accontentarci dell’unica esistenza che ci siamo scelti e non sapremmo nulla di quello che provano gli altri».

Mi scusi, ma non è che anche Prima persona ha qualcosa di autobiografico?
«Scrivere un romanzo è il mio modo di raccontare me stesso. Ed è anche il modo che mi sembra più sincero, perché rinuncia all’illusione che di qualsiasi evento si possa fornire una sola, irrevocabile versione: la propria. Non dico che la verità non esista, ma per avvicinarsi ad essa il narratore ha la facoltà di mettere insieme elementi di provenienza diversa: qualcosa che ha letto, qualcosa che ha visto, qualcosa che ha vissuto o che ha semplicemente origliato. Il risultato finale, a mio avviso, è molto più attendibile dell’apparente obiettività alla quale fa appello il memoir».

Il suo libro è anche il racconto di come si scrive o non si scrive un libro…
«Sì, è il confronto fra due personaggi che si presentano l’uno come l’opposto dell’altro, anche potrebbero anche essere destinati a scambiarsi i ruoli. La voce che ascoltiamo è quella di Kiff, un aspirante scrittore incaricato di redigere l’autobiografia di un’altra persona, Ziggy Heidl, responsabile di una truffa di dimensioni clamorose. Kiff ha la presunzione di essere un intellettuale e, in quanto tale, di esercitare un indiscutibile primato morale. Il paradosso, però, è che il famigerato Ziggy è molto più onesto di lui, almeno verso sé stesso. Conosce i propri limiti, non finge di avere un talento che in realtà non gli appartiene».

È il motivo per cui, alla fine, Kiff rinuncia a scrivere?
«La rivelazione della propria mediocrità lo coglie all’improvviso e lo spinge verso un altro ambito, quello dei reality televisivi, nel quale la mancanza di profondità è considerata un pregio, non un difetto. Il passo successivo, forse, potrebbe essere rappresentato dai social network».

In che senso?
«La narrativa del selfie ha molto a che vedere con i selfie veri e propri: le persone non trovano nulla di strano nel fotografarsi in situazioni stereotipate e ripetitive, né hanno da obiettare quando il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, sostiene che la privacy è un concetto ormai obsoleto. In questo contesto la letteratura non può non essere considerata sovversiva, dato che si rivolge alla parte più segreta e nascosta della nostra umanità. La conseguenza è che, in alcuni ambienti, leggere libri passa per una pratica inutilmente elitaria e fortemente antisociale. Di recente, per esempio, l’attrice Shaeline Woodly è stata subissata di critiche per aver ammesso di preferire i romanzi alla tv. Un episodio molto sintomatico, anche sotto il profilo politico».

A proposito di politica: lo sa che in Italia c’è chi guarda con entusiasmo alla pratica dei respingimenti adottata dal governo australiano nei confronti dei rifugiati?
«Quello che sta accadendo nel mio Paese da vent’anni a questa parte dovrebbe essere considerato come un monito al quale prestare ascolto, non come un modello da imitare. Un terzo dell’attuale popolazione australiana è nata all’estero e i programmi di immigrazione legale continuano a essere promossi con successo. Nello stesso tempo, però, gli uomini politici non si stancano di gareggiare in crudeltà verso i profughi che cercano di arrivare dall’oceano. L’intero Paese si sta macchiando di un comportamento orribile, che prevede l’imprigionamento sistematico di innocenti. Sappiamo fin troppo bene che le condizioni di detenzione sono disumane, violenze di ogni tipo e abusi sessuali rappresentano la norma, gli atti di autolesionismo e i suicidi sono in aumento. Mi vergogno anche solo a parlarne. Ma c’è dell’altro, purtroppo».

Che cosa intende?
«Politiche di questo tipo non possono non avere implicazioni negative. Un consenso fondato su sentimenti di paura e diffidenza incide sempre negativamente sull’economia di un Paese. Succederà anche in Australia, prima o poi, e il mio timore è che anche da noi ci sia qualcuno pronto ad approfittarne, com’è accaduto negli Stati Uniti e in Ungheria, come sta accadendo in Gran Bretagna e altrove. Insisto: il caso australiano è un monito, non un modello».

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