mercoledì 18 aprile 2018
A sette giorni dal fattaccio dell’arbitro Oliver e dalla rabbia, a freddo, di Buffon, uno sguardo sul direttore di gara, da sempre capro espiatorio di un calcio davvero troppo malato di “tifo”
Miserie e splendori del signor arbitro
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Asette giorni dal fattaccio del Bernabeu, l’ira funesta dei tifosi della Juventus e la bagarre sui social da parte degli antijuventini non si placa. Sembra quasi che il già complicato rapporto arbitro-calciatore si sia cristallizzato nell’istante in cui l’inglese Michael Oliver decreta il rigore in favore del Real Madrid (gol di Ronaldo e passaggio in semifinale di Champions) e lo sfogo rabbioso in mondovisione del portiere della Juve Gigi Buffon che gli vomita addosso frasi tipo «ha una pattumiera al posto del cuore». Nella rissa forcaiola che ne è seguita, poche sono state le voci a difesa, convinta, della categoria degli arbitri. La presunta «insensibilità » dell’arbitro britannico non consente all’opposta fazione, vedi la categoria “tifoso” (va dal calciatore in campo, al dirigente in tribuna, fino all’ultrà da divano) di calarsi nella dimensione arbitrale.

Il direttore di gara da sempre è un uomo solo contro tutti, a volte anche contro se stesso, avendo a disposizione due occhi e un fischietto per segnalare le irregolarità commesse dai 22 in campo nell’arco sempre ristretto della frazione di secondo. La tecnologia di ultima generazione, l’auricolare collegato con i collaboratori di bordo campo (guardalinee), il quarto uomo e nel nostro campionato l’adozione del Var hanno comunque ridotto la percentuale d’errore tecnico e in parte anche il dubbio atavico della sudditanza psicologica dell’arbitro nei confronti delle “grandi”. Azzerare del tutto l’errore umano oltre che impossibile sarebbe davvero consegnare anche il calcio in mano agli automi. «Il Var è uno strumento riconosciuto, che funziona. Migliorabile, ma ormai da tutti accettato evoluto», ha detto di recente Marcello Nicchi presidente dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri che opera e “resiste” a tutto e tutti, dal 1911. Oltre cent’anni di solitudine per le ex giacchette nere.

«Per più di un secolo l’arbitro ha portato il lutto. Per chi? Per se stesso. E ora lo nasconde con i colori», ha scritto il grande narratore uruguayano di Splendori e miserie del gioco del calcio , Eduardo Galeano. E ogni “maledetta” domenica, come ad ogni turno di Coppa, il senso di lutto torna ,perché l’arbitro è il primo attore al quale la Curva da sempre dedica il coro «devi morire!». Destino crudele che accomuna questi signori con il fischietto che arbitrano 15mila partite a stagione. E la maggioranza di queste gare sono dirette da una elite di professionisti ben pagati (circa 180mila euro l’anno ai 22 arbitri di Serie A) e da un esercito di amateur o di dilettanti saldati a rimborso spese che, al triplice fischio, il più delle volte sono Cornuti e mazziati. Titolo omonimo del libro di Luca Cardinalini che annota: «Nei referti si legge di gare che finiscono con risse, lanci di pietre, fumogeni, tavole da falegname, coltelli e monetine all’indirizzo dell’arbitro e dei guardalinee».

Fuori referto, troppo spesso finiscono nei verbali delle Forze dell’Ordine casi di arbitri inseguiti e picchiati a sangue. Un far west italico di cui per lo più si tace. Fenomeno che è talmente allargato da coinvolgere tifose scatenate o calciatrici in preda a raptus che si fanno giustizia da sole. È il caso di Maria Antonietta Cesarini, che non rimarrà alla storia di cuoio come il suo omonimo, Renato Cesarini genius loci del gol allo scadere, ma per aver rimediato una maxisqualifica di 10 mesi per «frasi ingiuriose e una leggera sberla a mano aperta nei confronti dell’arbitro». Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo nel calcio ci ricorda che gli episodi nei confronti degli arbitri sono meno evidenziati rispetto a quelli che riguardano i calciatori. A nostra memoria il signor Mohammed El Hadi, origine egiziana, arbitro della sezione di Rovereto è stato l’unico ad interrompere una partita (San Rocco-Valsugana, campionato di prima categoria trentina), dopo i reiterati insulti razzisti ricevuti da un tifoso della Valsugana.

Nonostante ci sia ancora chi sia convinto che la Calciopoli del 2006 in realtà dovrebbe essere ridefinita come “Arbitropoli” (le sentenze della giustizia ordinaria e sportiva smentiscono categoricamente questo scenario), la categoria degli arbitri, a differenza dei calciatori e dei dirigenti, ha avuto rarissimi casi di soggetti corrotti. Solo gli imprudenti signor Pera e il signor Scaramella negli anni ’40 vennero beccati sul fatto: incassarono assegni per aggiustare il risultato. Debolezze ignote al “tiranno di Siracusa” il leggendario signor Concetto Lo Bello. Arbitri carismatici e integerrimi, come il signor Cesare Jonni di Macerata che fece infuriare i milanisti dopo una sfida del ’52 e il giorno dopo il “Corriere della Sera” titolava: «Jonni, un cieco a San Siro». «Non me lo ricordo quel titolo, ma l’arbitro è un essere umano, mica una macchina. Che poi anche quelle sbagliano no?...», disse ad Avvenire il caro vecchio Jonni quando andammo a scovarlo nel suo rifugio marchigiano. Il signor Michelotti di Parma, classe di ferro 1930, lo trovammo invece nella sede del “Club dei 27”. Confraternita in cui ogni adepto incarna un’opera di Giuseppe Verdi «e io dal 1972 sono Don Carlo », fischiò alle nostre orecchie il simpatico e saggio Michelotti primo cultore del «dialogo in campo» ma anche di una fisicità sperimentata anche sui pesi massimi del calcio internazionale.

Ne ha sicuramente memoria il panzer tedesco Hrubesch, che durante un Amburgo-Real Madrid osò affrontarlo. «Con uno spintone lo feci girare come una trottola. Ogni volta che lo incontro Hrubesch me lo “rinfaccia”...». Da questa antica e premiata scuola italiana è uscito un fuoriclasse riconosciuto come Pierluigi Collina, capo sempre molto contestato di tutti gli arbitri europei. E le ultime generazioni dei nostri fischietti nazionali proseguono la tradizione figurando tra i più esperti e e preparati del mondo. Eppure, già in tempi non sospetti Ennio Flaiano proclamava: «L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio ». Giudizio che viene continuamente rimesso in discussione e che alimenta inutili dibattiti mediatici che poi sfociano in guerre verbali e purtroppo anche inqualificabili scontri di piazza. La soluzione? Forse non c’è, o magari l’ha trovata Maurizio Cucchi in una sua poesia: «Basta allora con moviole / sofismi / e urla beluine. / Sia proclamata la verità di fede: / l’infallibilità dogmatica / dell’arbitro. Sia dichiarato infallibile / d’autorità, sia lui / il solo a possedere / l’unica, sportiva, perfetta verità».

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