sabato 26 dicembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Ognuno ha le sue storie di Natale. Per meglio dire: le ha avute; adesso stanno in luoghi riposti della memoria. E bisognerebbe capire perché si trascinano dietro una specie di vergogna. Forse non c’è che da entrare un momento in quella vergogna: svolgere dall’ombra e dalla polvere qualcuna delle vecchie storie.La nostra è assai breve. Sono gli anni della guerra, forse il 1942. Il ragazzo ha una dozzina d’anni e studia fuori casa. Ma per Natale ritorna: dalla città - una piccola, opaca, periferica città - in paese. La distanza è poca, a considerarla oggi; però in quell’inverno lontano sembra quasi insuperabile, infinita. Si parte a mezza giornata, con il magro pranzo in gola, e si arriva che è già buio: il buio fondo dell’oscuramento, nelle stradine selciate su cui scende il fumo dolce e aspro dei camini. La sgangherata corriera ormai tutta un rattoppo, stipata oltre il possibile, ha traversato il Logudoro in una scia di nafta: i suoi ritardi appartengono alla leggenda di quegli anni. Dunque è come in un sogno che finalmente ci accolgono - per la porta lasciata aperta sulla notte come non si dovrebbe - le luci conosciute da sempre d’un bar, che è quasi una bettola; mentre da lì si affacciano visi qualsiasi però non anonimi, risuonano voci non si sa di chi, ma note anch’esse. È con stupore che finalmente sentiamo sotto i piedi il fango indurito dal freddo, vediamo le stelle bucare l’oscurità: stelle che sono soltanto di quel cielo.Qui approdano le ansie del ragazzo. Giacché era dubbio che egli trovasse posto sulla corriera; non era sicuro che poi la corriera partisse; era ancora meno certo che essa mai arrivasse. E il nevischio che al mattino aveva preso a cadere, sghembo, tra le grigie case della città, spinto dai mulinelli del maestrale, era stato pure motivo d’angoscia: diventando neve avrebbe chiuso la strada del ritorno. Ma ora è appena un ricordo e l’aria è molto ferma, così umida e gelata; spruzzata d’un tratto, su per la salita che si prende, da un odore di mandarini, da un fiato vecchio di vino. È in questo modo che cominciano le vacanze di Natale.Il ragazzo ha un fratello che ha nove anni meno di lui, proprio un bimbetto. Morrà poi ancora giovane, in maniera tragica e atroce. Ma adesso - fortunatamente, giustamente - il ragazzo non può saperlo: e gli porta un piccolo regalo, comprato con i suoi non facili risparmi. È un Natale di guerra e anche in città le vetrine sono assai povere. Il bambino avrà, oltre questo che ancora rimane nella valigia, altri piccoli regali trovati in un negozietto del paese: un Pinocchio di legno, un tamburo di latta, che altro?E che altro di quel Natale? Il fatto per cui si è iniziato a ricordare e a scrivere; il fuoco minimo di questa storia: che ancora brucia, chissà dove. La sorpresa del bambino e l’arrivo dei doni, domani, durante la notte della Vigilia, sono legati al tintinnare della campanella d’una bussola, di qua del portone di casa. Quel suono, nel silenzio dell’attesa, varrà come segnale d’un passaggio avvenuto: e il bambino, lui solo, potrà inoltrarsi nel buio. Il ragazzo fervidamente immagina questo, mentre dopo cena sale alla sua fredda camera e rientra, smosso il carico delle coperte d’orbace, nel letto dell’infanzia; dove lo aspetta il conforto d’una bottiglia d’acqua calda avvolta in una ruvida calza di lana. E chissà come, poco prima di addormentarsi adesso pensa - ha dodici anni - alla sua morte: e pregando chiede di non morire prima di Natale.È ciò che volevo raccontare, la storia è finita. Per chi l’ha raccontata, null’altro contiene un’immagine simile di gioia, di pura gioia; limpida e gravida di spavento: come il suono della campanella che nella notte annunciava il passaggio, l’avvento compiuto. Gioia insieme misteriosa: se induceva un ragazzo nemmeno adolescente a non voler altro dalla vita e ad accettare in cambio la morte. La vergogna che ci resta è che nulla ora sia paragonabile a quella gioia. Nulla non solo di quanto ci appartiene - sarebbe poco male. Nulla, nella parte del mondo che ci spetta; nulla cui possano giungere i nostri occhi. Né credo dipenda solo dal volgere degli anni e dal logorarsi dell’età. Quella gioia senza nome, inaccessibile e perduta, aveva la purezza del dolore e della povertà: trovava unica origine nella povera gioia di un altro. Il vero augurio di Natale - per me, per chiunque - è riaverla un momento.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: