martedì 23 maggio 2017
A colloquio con l’attore torinese che con “Il nome della rosa” debutta questa sera al Carignano di Torino. Da Baricco che gli cucì addosso "Novecento" a Umberto Eco
Eugenio Allegri da Baricco a Umberto Eco
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Nel dietro le quinte dell’oscuro mondo del teatro, ci sono attori ammantati di aurea mediocritas ma, spinti da critica e lobby, vengono spacciati per dei geni... Poi c’è la categoria dei geni autentici, dei ribelli e dei sognatori, come quella a cui appartengono due attori di razza: Renato Carpentieri e Eugenio Allegri. Ora insieme sul palco in Il nome della rosa: Carpentieri è il vecchio monaco Jorge, mentre Eugenio Allegri, torinese della “cinta” periferica, nato nel 1956 a Collegno e cresciuto tra gli hangar della Fiat e le case popolari di Grugliasco, interpreta mistico Ubertino da Casale. « Il nome della rosa, seguendo le indicazioni di Eco, lo lessi nel 1984 in sette giorni. E ora che sono “abitato” dal personaggio di Ubertino mi rendo conto di non possedere il suo misticismo, ma siamo uniti dal piacere della comicità e dall’attenzione etica e sociale per le ragioni degli altri». Ubertino, il compagno preferito di studi di Guglielmo da Baskerville, al quale si rivolge dicendo: «L’eccesso di ironia marcisce la mente, voi inglesi avete il cervello inzuppato di pioggia ».

Un personaggio poeticamente francescano che, idealmente, vent’anni dopo riporta Eugenio Allegri ad Assisi. «Nel 1998 al Carignano, con la mia compagnia Art-Quarium, allestimmo lo spettacolo Ritorno ad Assisi, tratto dal romanzoIl poverello di Dio di Nikos Kazantzakis. Ed è stato allora che nella città del Poverello conobbi il pianista assisiate Ramberto Ciammarughi, con il quale abbiamo scritto la Lauda per San Francesco che portiamo ancora in scena. E ogni volta con grandissimo coinvolgimento spirituale da parte nostra e del pubblico». Quel pubblico che lo conosce e lo riconosce da quasi un quarto di secolo nei panni dell’onirico, struggente e irresistibile Novecento. Titolo dell’omonimo monologo-jazz scritto, anzi cucitogli addosso da Alessandro Baricco. Novecento è poi diventato il protagonista del film di Giuseppe Tornatore La leggenda del pianista sull’oceano, ma neppure il pur eclettico Tim Roth emoziona quanto il Boodman T.D. Lemon interpretato in teatro da Allegri. «L’eterno successo di Novecento sta tutto nella scrittura e le trovate geniali di Baricco. A cominciare dalla sfida musicale: un personaggio d’invenzione, Novecento, il pianista nato e mai sceso in vita sua dalla nave, contro il grande Jerry Roll Morton, realmente esistito, uno dei padri del jazz».

Allegri parla a ritmo jazzato anche quando racconta della sua lunga carriera da Eugenio e sregolatezza, che è anche il titolo della pièce che scrisse, diresse e interpretò alla metà degli anni ’80 con l’attrice francese Bobette Levesque. Ma il cammino di quello che è stato anche il primo Allegri della Juventus («giocavo nelle giovanili bianconere ma tifo Toro. In compenso sono cugino di Gasperini») è iniziato tanto tempo fa, a Grugliasco. «C’è una foto che mi immortala alle elementari sul palco assieme a mia madre Jolanda, lei cantava le canzoni degli anni ’50 e io facevo quelle di Morandi, Modugno e della Pavone... Al teatro ci sono arrivato grazie al professor Di Molfetta, comunista sfegatato, un pugliese di Andria che a Rivoli all’istituto tecnico Peano, il primo in Italia a diplomare periti elettronici, ci trasmise l’amore per la recitazione nel teatro seminariale che stava proprio dietro al Castello». Alla biblioteca di Grugliasco, con Jorgos Gatos, «un greco fuoriuscito amico di Mikis Teodorakis», il giovane Eugenio apprese anche l’arte dell’operatore culturale. «Ospitavamo rassegne cinematografiche con Morando Morandini, serate di lettura e di teatro e poi i primi concerti di Lucio Dalla: nel 1974 vennero a sentirlo trecento persone, cinque anni dopo riempiva il Comunale di Torino con De Gregori e il tour Banana Republic. Tutte esperienze che poi mi sono servite nella mia attività di organizzatore e di direttore artistico, come adesso che porto avanti le stagioni del Teatro Fonderia Leopolda di Follonica».

Nell’estate calda del ’77, Allegri traslocava a Bologna per entrare all’Accademia di Alessandra Galante Garrone, deciso a fare del teatro il suo mestiere. Apprendistato nella cooperativa Nuova Scena, con Memè Perlini («un genio che ci ha lasciati da poco, e troppo presto», ricorda commosso), e la band degli Area («non c’era già più Demetrio Stratos, ma a lui devo tanto della lezione sull’uso della vocalità»). Iniziava così un cammino che, fin dagli Uccelli di Aristofane, è sempre stato un autentico volo in direzione ostinata e contraria. «Il teatro è stato da subito appagamento dell’anima. Quando vidi Dario Fo in Mistero buffo dissi a me stesso: se questo vuol dire fare l’attore allora non posso che consacrare tutto me stesso al teatro. E glie l’ho anche scritto a Dario, prima che morisse, nella lettera di auguri che gli inviai per i suoi novant’anni». Con l’attore cesenate Francesco Mescolini Allegri si presentò da Fo e ottenne la parte nella sua versione brechtiana dell’Opera dello sghignazzo. «Ma quando vidi che Dario Fo si stava spostando su posizioni extraparlamentari preferii seguire la direzione dei miei tre fari luminosi: il regista Vittorio Franceschi, Francesco Macedonio, un uomo straordinario che per tutta la vita ha continuato a fare il maestro elementare a Gorizia, e il grande “pedagogo del corpo” Jacques Lecoq, che mi ha guidato alla scoperta della commedia dell’arte, del Ruzante e di quell’Arlecchino che ogni tanto sbuca fuori e devo assolutamente rimetterlo in scena».

Infine Leo de Berardinis. «Un genio del linguaggio, capace di farmi recitare in napoletano in Adda passà a’nuttata. De Berardinis è stato fondamentale, mi ha guarito dalla paura del palcoscenico rendendomi consapevole delle potenzialità del gesto fisico abbinato alla voce ». Una voce prestata agli “amici” scrittori: Primo Levi, Italo Calvino, Paolo Volponi e Gianni Celati. Una voce altamente “civile”, specie quando cita Pasolini per raccontare Berlinguer. «Non era uno spettacolo celebrativo ma un Enrico Berlinguer riletto nella dimensione umana e attraverso le sue sconfitte politiche. E il piacere più grande per me è stato ricevere gli applausi e sentire le emozioni sincere di sua figlia Bianca e della grande famiglia Berlinguer... Il mio impegno politico? Con il tempo l’ho tradotto esclusivamente su queste tavole di legno. E come Ubertino rimango convinto della forza dell’ironia, ma facciamo tutti molta attenzione, l’eccesso marcisce la mente».

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