venerdì 12 marzo 2021
Al Maxxi una mostra sul progettista che portò nella città un mondo figurativo che attinge a De Chirico e Sironi Intellettuale complesso, fu il primo italiano a ricevere il Pritzker Prize
Una fotografia  tratta  dal reportage  sulla costruzione  e sul viaggio  del “Teatro  del Mondo”  da Venezia  a Dubrovnik  (1979-1980)

Una fotografia tratta dal reportage sulla costruzione e sul viaggio del “Teatro del Mondo” da Venezia a Dubrovnik (1979-1980) - Antonio Martinelli

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Una grande mostra, aperta fino al 17 ottobre, che ripercorre la carriera di uno dei massimi architetti italiani e internazionali del Novecento, un percorso complesso e affascinante che presenta in modo organico e poetico la tensione espressiva e teorica di Aldo Rossi (Milano 1931-1997), una delle maggiori personalità culturali del nostro Paese che ha saputo unire il talento progettuale a una vocazione quasi rinascimentale di docente, di scrittore, di disegnatore e di pittore. Questo intreccio fecondo ha dato vita a un’azione febbrile e ininterrotta di cui la mostra (a cura di Alberto Ferlenga, con il coordinamento di Carla Zhara Buda e la collaborazione della Fondazione Aldo Rossi) rende molto bene la forza, la costanza e l’ampiezza, grazie anche a un allestimento che mette in rapporto diretto i documenti, i progetti, le idee grafiche, gli appunti, le pubblicazioni, i modelli e le realizzazioni finali.

Questa ricchezza di materiali (più di ottocento pezzi tra documenti, carteggi, modelli, schizzi, disegni e fotografie) è accompagnata anche da due importanti volumi, uno (edizioni Maxxi) dedicato a L’archivio di Aldo Rossi collezioni del Maxxi Architettura, l’altro, Aldo Rossi. I miei progetti raccontati (Electa), dedicato alle relazioni scritte da Aldo Rossi nel corso della sua attività professionale. Relazioni viste quasi come narrazioni che, come scrive Ferlenga, «in alcuni casi anticipano un progetto, in altri lo seguono a distanza di anni riprendendone i temi. E anche quando nascono poco prima della consegna di un concorso hanno più il senso di considerazioni a latere che quello di una vera e propria descrizione e rivelano ragioni che il disegno tecnico o la prospettiva non possono mostrare». In questo senso la mostra stessa può essere vista come una narrazione ipertestuale, come accade con il disegno della Città analoga per la Biennale di Venezia del 1976, un grande collage di progetti di Rossi, di stratificazioni storiche e di elementi urbani che oggi può essere approfondito in modo interattivo per afferrare la sua densità e la sua potenza di interpretazione, nel tentativo di affrontare il dilemma irrisolto della convivenza tra la città storica e la città contemporanea e futura.

Uno dei grandi meriti di Aldo Rossi è stato quello di riuscire a essere anche un docente appassionato attraverso insegnamenti universitari e conferenze internazionali, in quella posizione cosmopolita che si contraddistingue per la qualità unica di una personalità formata a partire dalle macerie della Milano devastata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Questa origine appare fondamentale per comprendere la visione di Aldo Rossi, la sua volontà di (ri)costruire attraverso una sorta di assemblaggio concettuale che prende forma attraverso un serrato lavoro in cui la scrittura e il disegno si fondono in una ricerca febbrile e incessante da cui emergono, come per sublimazione, le forme degli edifici fondate sulla chiarezza di un nuovo umanesimo illuminato. In un mondo sempre più digitalizzato, la mostra ci restituisce quindi, in modo quasi commovente, il grande sforzo men- tale e manuale di un architetto che cerca di dare forma al mondo partendo dal disegno e dalla scrittura sui piccoli quaderni sui quali fissa il proprio pensiero.

Da questi appunti 'poveri', dai tratti di matita e di inchiostro nascono così idee, progetti e architetture realizzate in Europa, in America, in Asia e che nel 1990 hanno permesso ad Aldo Rossi di essere il primo architetto italiano a vincere il prestigioso Pritzker Prize. La mostra si sviluppa dunque sui poli di due grandi opere cardine: il Teatro del Mondo realizzato nel 1979 per la prima Biennale di Venezia Architettura del 1980 e il Cimitero di San Cataldo di Modena, progettato con Gianni Braghieri nel 1971. Il Teatro del mondo, che fu 'esposto' e ancorato presso Punta della Dogana a Venezia per poi viaggiare sul mare fino a Dubrovnik ed essere smontato dopo il ritorno nella città lagunare, è una stupefacente architettura fluttuante ed effimera in cui si sommano culture, epoche e stili che danno origine a un teatro in viaggio, quasi l’apparizione geometrica di un frammento di città ideale nato dalle stesse acque che hanno alimentato la grandezza di Venezia.

Il cimitero modenese si mostra invece come la scelta civilissima di dare ordine al disordine del mondo contemporaneo che dimentica gli esseri umani scomparsi, lo spazio metafisico di una città dei morti dominata da due grandi solidi geometrici, un cubo e un cono. Nel cimitero gli e- chi di de Chirico e Sironi dialogano con i colombari della Roma antica per comporre una riflessione contemporanea sulla morte e l’incompiutezza degli sforzi umani, in una dimensione allo stesso tempo perenne e transitoria in cui il sepolcreto e il Teatro del Mondo sembrano incontrarsi idealmente nella volontà di dare senso al viaggio sul mare dell’esistenza e al millenario simbolo della navigazione oltre il confine estremo della vita.

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