venerdì 21 febbraio 2014
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L’aggettivo giusto, per questa mostra inaugurata al Museo d’arte di Ravenna, è: imponen­te. Dire che sia una bella mo­stra sarebbe generico e inap­propriato. La bellezza c’è, ma resta quasi accessoria, come valore aggiunto estetico a qualcosa che pone an­zitutto una questione tecnica e racconta come essa si è dipanata storicamente fino ai nostri gior­ni. Il fil rouge è appunto questo e solo questo, nel­la mostra curata da Claudio Spadoni e Luca Cian­cabilla (che nel catalogo edito da Silvana riper­corre diffusamente lo sviluppo delle metodolo­gie). Non vi sono, dunque, tematiche o ipotesi critiche a legare tra loro le opere, ma soltanto il comune destino di essere state separate dal mu­ro che le aveva viste nascere. Il soprintendente Luigi Ficacci dimostra la sua onestà intellettuale quando fa capire nella no­ta introduttiva che si trat­ta di una mostra tecnica, apparentemente “difficile”, anche se poi tenta di blan­dire lo spettatore scriven­do che «in questo [la mo­stra] professa un’elevata considerazione del visita­tore comune». E a questo fa seguire una filippica contro le mostre prodotte dall’industria culturale (vedi, aggiungo io, l’attua­le rassegna costruita attor­no alla ragazza di Vermeer a Bologna), eventi «estra­nei all’ambito proprio del­l’elaborazione culturale (dello studio e della ricer­ca) ». Sfonda una porta a­perta, il dottor Ficacci; ma perché – mi chiedo – sen­te poi il bisogno di ribadi­re che la mostra ravenna­te «non manca di spetta­colarità »? Non è forse la spettacolarità il discrimi­nante del linguaggio tele­visivo e dell’enfatizzazio­ne estetica (che fa breccia e si realizza fisicamente nello spazio urbano con architetture oggi concepi­te come un involucro da lunapark)? È in questa strana premura per la spet­tacolarità che ogni critica al sistema sconta il proprio moralismo. Sì sì, no no. Il resto è ipocrisia. Alcuni, credo, trovandosi davanti a un affresco “strappato” dal muro per il quale era stato dipinto, si saranno domandati: «Ma come hanno fatto a stac­carlo senza distruggerlo?». La curiosità, legittima e quasi irresistibile, viene a­desso soddisfatta anche per i comuni mortali da questa mostra che ambi­sce a fare il punto su una vicenda che ha avuto un’accelerazione nel No­vecento. Tre sostanzial- mente le tecniche: la più antica, attiva soprattut­to dal XVI secolo, era “a massello” (si segava la se­zione di muro su cui era compresa l’opera e la si collocava in un museo): così sono stati “estratti” affreschi come la Maddalena di Ercole de Rober­ti, o con una procedura simile Il Volto di Cristo del­l’Angelico o gli Angeli musicanti di Melozzo. L’a­pice si ebbe nella Roma settecentesca con le im­prese estrattive di Niccolò Zabaglia. Ma già si pre­parava una rivoluzione, con le sperimentazioni del ferrarese Antonio Contri ideatore di “un me­raviglioso artifizio” per strappare dal muro l’af­fresco senza tagliare la muratura. Ma Contri si portò nella tomba (1731) il suo segreto tecnico, e solo a fine Settecento l’imolese Giacomo Succi ne raccolse il testi­mone perfezionando la tecnica: la più antica operazione di strappo che oggi si ricorda è quella della Sant’Anna e di un Profeta dipinti da Bartolomeo Cesi nella Catte­drale di Imola, e risale al 1775-76. Da allora si manifestò una vera fre­nesia dell’estrazione e vennero a­sportati affreschi di Giulio Campi, Bernardino Luini, Nicolò dell’A­bate, Annibale Carracci, Romani­no, Guido Reni, Domenichino, Paolo Veronese, Garofalo e molti altri. A vantaggio del collezioni­smo che chiedeva sempre di più opere di questo tipo. Fu però nel Novecento, alla fine della seconda guerra mondiale, sotto il condi­zionamento dell’immane disastro bellico, che si ebbe una vera e pro­pria “stagione degli stacchi” sti­molata anche dalla “caccia alle si­nopie”, ovvero gli studi grafici eseguiti dai pittori prima di accingersi a realizzare il manto affre­scato. Il grande attivismo in quest’ambito si de­ve all’allarmismo diffuso da alcuni storici dell’arte italiani, da Longhi a Brandi a Bianchi Bandinel­li, che proponevano una vasta e diffusa opera di distacco degli affreschi come prevenzione rispetto a future distruzioni belliche. Preoccuparsi delle opere d’arte era certo legittimo e doveroso, ma con questa logica avrebbero dovuto estrarre Giot­to ad Assisi e a Padova, Michelangelo nella Sisti­na, Masaccio nella Brancacci e a Santa Maria No­vella, Raffaello nelle Stanze vaticane, la Resurre­zione di Piero a Sansepolcro ecc. A pensarci, una vera follia. Oggi del tutto superata. Ben altro discorso quello di salvare un affresco dal degrado ambientale e dalla fatiscenza muraria. L’esempio forse più interessante, perché a di­stanza di un secolo fa ancora discutere, è quello della Madonna del Parto di Piero della Francesca. L’affresco era stato per secoli quasi dimenticato, fu un erudito aretino, Vincenzo Funghini, nel 1889 a riconoscervi la mano di Piero vedendolo nella chiesetta del cimitero di Monterchi. La storia af­fascinante di quest’opera è un caso da manuale. Era stata dipinta da Piero per una chiesetta di campagna ai piedi della collina di Monterchi. A fine Settecento, il sito della chiesa venne scelto per realizzare il nuovo cimitero, la chiesa fu in gran parte demolita e ciò che ne rimase divenne una cappella funebre. L’affresco venne estratto “a mas­sello” e posto in una parete della chiesa origina­ria sopravvissuta al rimaneggiamento. Circa vent’anni dopo la riscoperta del Funghini, nel 1911, la Soprintendenza decise di asportare l’af­fresco per garantirne la conservazione. Nel 1917 un sisma particolarmente forte convinse le au­torità del luogo a metterlo al sicuro, e solo nel 1922 l’opera ritornò nella Cappella del cimitero. Passarono settant’anni e nel 1992, centenario del­la morte di Piero, l’affresco venne sottoposto a restauro e collocato temporaneamente sotto u­na teca climatizzata nell’ex scuola media di Mon­terchi. Il nuovo spazio, però, completamente rior­ganizzato, è diventato il museo permanente al­lestito attorno a quest’unica opera vista ogni an­no da migliaia di turisti. Fu in quel momento che si aprì anche il contenzioso, tuttora in corso, fra Comune, Soprintendenza e Diocesi. Quest’ulti­ma chiede che l’affresco torni in uno spazio sa­cro che lo restituisca alla devozione. La Madonna del Parto riassume in sé tutte le que­stioni in ballo quando si parla di affreschi “strap­pati”, ma, paradossalmente, l’opera più emble­matica a Ravenna non è esposta: potevano i mon­terchiesi privarsi di una tale attrattiva? Evidente­mente no. Che dire? È indubbio che la Madonna del Parto aveva una funzione religiosa che oggi è stata messa tra parentesi. Per usare una espres­sione di Walter Benjamin, si può dire che, chiusa sotto una campana di vetro per essere ammira­ta dai turisti, la Madonna di Piero ha visto preva­lere il “valore di esposizione” su quello “cultuale” e “religioso”. Un tema che oggi dovrebbe essere ripreso in mano dalla critica. E non solo per quan­to riguarda l’opera di Piero.

Ravenna, Museo d’ArteL’incanto dell’affrescoFino al 15 giugno

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