domenica 23 aprile 2017
Anche uomini di sport furono coinvolti nella Liberazione: dall'irriducibile "pugilista" Brocchi ai partigiani Bitetti e Moretti
Il pallanuotista Ivo Bitetti (primo a sinistra), che fu a Dongo

Il pallanuotista Ivo Bitetti (primo a sinistra), che fu a Dongo

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Un pugile, un pallanuotista, un calciatore. Chissà quanti di loro saliranno sul ring, si tufferanno in piscina, scenderanno in campo in questo fine settimana, in questi giorni per il nostro Paese sospesi tra memoria e futuro, tra celebrazioni della Liberazione e un presente che in molti casi guarda invece distrattamente a quegli eventi, alla nostra Storia. E allora forse val la pena riviverlo con occhi nuovi, quel 25 aprile del 1945, con i giorni che seguirono. Per scoprire che anche lo sport italiano scese in campo, prese parte, svolse un ruolo attivo in quei momenti drammatici e decisivi, con protagonisti spesso sconosciuti e inattesi...

«Antonio Brocchi, pugilista!». Siamo alle prime luci dell’alba del 27 aprile 1945, nel tratto fra Musso e Dongo della Via Regina nel comasco, la 52ª Brigata partigiana “Garibaldi” intercettava, nella sua fuga disperata verso la Svizzera, una colonna di automezzi militari nazifascisti. Su uno di quei veicoli, maldestramente camuffato da soldato tedesco falsamente febbricitante ed ubriaco, era nascosto Benito Mussolini. La sera di due giorni prima, il 25 aprile, il Duce aveva infatti deciso di prendere la strada verso Como, per tentare così l’estrema, e a quel punto unica, via di fuga. Con lui venivano catturati i trenta irriducibili rimastigli a fianco e, tra questi, proprio quell’Antonio Brocchi – guardiaspalle del segretario particolare di Mussolini, Luigi Gatti – che ai partigiani che lo stavano identificando non esiterà a presentarsi, orgogliosamente, come “pugilista”, cioè pugile, boxeur. Un dato che potrebbe essere declassato a mera curiosità, se non fosse che altri (e di ancor maggior rilievo) furono gli sportivi presenti in quella drammatica scena, o protagonisti in quei giorni in cui una parte del Paese s’inabissava, un’altra tornava in superficie a immaginare il suo futuro.

Pochi mesi dopo quel 27 aprile, Ivo Bitetti sarebbe diventato campione d’Italia: la sua squadra infatti, La società Sportiva Lazio, nel settembre di quello stesso 1945, avrebbe vinto il tricolore di pallanuoto superando in finale la Rari Nantes Napoli. Un titolo che nel 1946, tuttavia, la Federazione Italiana Nuoto tuttavia revocò, su reclamo dei partenopei che avevano chiamato in causa un supposto errore tecnico commesso dall’arbitro nella sfida decisiva. Una polemica che certo Bitetti – romano classe 1919 e figlio di quell’Olindo che era stato tra i pionieri della Ss Lazio e presidente della stessa Fin dal 1937 al 1940 – di certo non poteva neppure immaginare, in quel pomeriggio del 27 aprile, mentre risaliva affiancato dai partigiani la colonna di automezzi ormai ferma fin dall’alba lungo la Via Regina. Lo avevano chiamato i partigiani stessi, perché Ivo conosceva bene il tedesco, e stava quindi dando una mano nelle traduzioni e nell’identificazione dei militari fermati. Proprio alla fine del lungo serpentone, c’era proprio quella specie di camioncino, in cui seminascosto da elmetto, coperta e oscurità, giaceva il Duce, per pochi istanti ancora protetto dalla falsa identità da soldato teutonico febbricitante e alticcio. «Il Capo… ci sta il Capo!», disse sottovoce il copilota del mezzo a Bitetti, che subito chiese aiuto al partigiano Giuseppe Negri, calzolaio di Dongo che aveva fatto la guerra col grado di sottocapo di Marina, per ispezionare il veicolo e smascherare così Mussolini. Protagonista quasi involontario dell’episodio-chiave che segna la fine del fascismo, Ivo si ritufferà ben presto nella sua quotidianità, marcata a tinte forti dalla passione dello sport: ancora fiero per il titolo della pallanuoto appena conquistato, lo ritroviamo il 18 novembre del 1945 ancora protagonista sui campi di gara. Stavolta, però, non col la calottina in testa, ma con la palla ovale in mano, rugbista (lui corpulento, atleta alto 185 cm) con la maglia del Rugby Roma, che affronta allo Stadio Nazionale una rappresentativa militare neozelandese.

Sarà un altro sportivo, invece, a porre materialmente e drammaticamente fine ai giorni del Duce. «Fatti scendere dall’auto, il Duce e la Petacci vennero posti contro il muretto di Villa Belmonte…[…] Mussolini non apparve troppo sorpreso e, quando ebbe l’arma puntata verso di sé, gridò con foga: “Viva l’Italia!”. Così, in un’intervista del 1990, “Pietro Gatti”, commissario della 52ª Brigata “Garibaldi”, ricordava quel pomeriggio di sabato 28 aprile 1945, quando (anche) le pallottole esplose dal suo mitra misero fine alla vita di Benito Mussolini. E dire che fino a pochi anni prima, il sabato pomeriggio era giorno di tutt’altro significato per “Pietro Gatti”. Che infatti altri non era se non Michele Bruno Moretti, che in gioventù il sabato pomeriggio era solito passarlo ad allenarsi, in vista della partita del giorno dopo. Terzino destro di buon livello era stato, del resto, Moretti, comasco classe 1908, prima con la maglia dell’Esperia, poi con quella della Comense allenata dall’ex capitano della Nazionale Adolfo Baloncieri, salita grazie anche alle prove di Moretti fino alla Serie B. Poi un brutto infortunio, la retrocessione il trasferimento – nel 1935 – agli svizzeri del Chiasso, non senza però aver accarezzato – e pure indossato, in due allenamenti – la maglia della Nazionale, nel marzo del 1931 e nel febbraio del 1932. In questa seconda occasione, memorabile il fiero duello col leggendario centravanti italo-argentino del Napoli Attila Sallustro, così cruento da far guadagnare a Moretti i rimproveri del ct Vittorio Pozzo, con cui ebbe un vivace scambio di battute nello spogliatoio. Poi il ritiro, il lavoro da elettricista-idraulico, l’iscrizione al Partito comunista, l’adesione alla rete clandestina, la fuga e la scelta partigiana, fino a divenire l’esecutore materiale della “sentenza”.

Queste tre biografie bastano appena a sottolineare l’intreccio, profondo e radicato, tra il nostro sport e la Liberazione. Ma il quel 25 aprile 1945 c’è un’altra parabola, sportiva e umana, che prende il via, con un inizio doloroso e un approdo sorprendente e inatteso. Siamo in via Washington, a Milano: i nazifascisti, in rotta, si danno alla fuga, inseguiti dalle bande partigiane. A un certo punto, tra i due lati della strada, inizia una sparatoria: nel mezzo, un gruppo di adolescenti, tra cui un tredicenne esile, che resta ferito da due pallottole alla mano destra. All’arrivo in ospedale, la diagnosi dei medici suona come una sentenza: bisogna amputare. Ma l’ostinazione dei genitori impedisce l’intervento, la mano viene curata alla bell’e meglio, e da quel giorno, e per tre anni, una pallina da tennis con cui fare riabilitazione sarà la compagna inseparabile di quel ragazzo, che rimarrà poi affascinato da un’altra palla, più grande, arancione e a spicchi, che aveva ammirato nelle sue evoluzioni tra le mani dei soldati americani, che insieme a due canestri improvvisati ne facevano il loro passatempo preferito per le strade di Milano. Il tredicenne di allora è oggi Sandro Gamba, mito del basket italiano e mondiale, che ha vinto tutto con la maglia e sulla panchina di Milano e della Nazionale.

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