martedì 29 settembre 2020
Nel saggio di padre Enzo Fortunato, l’umile tonaca di san Francesco si presenta così simile alla tunica del Salvatore
San Francesco in adorazione del Crocifisso, particolare opera del Guercino realizzata intorno al 1649

San Francesco in adorazione del Crocifisso, particolare opera del Guercino realizzata intorno al 1649 - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Anticipiamo in queste colonne un estratto del nuovo libro di padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi e del mensile “San Francesco”, La tunica e la tonaca. Due vite straordinarie, due messaggi indelebili in uscita oggi per Mondadori (Pagine 144. Euro 17,00). Il volume
verrà presentato il 1° ottobre alle 18 presso il Protettorato San Giuseppe di Roma, in via Nomentana 341, dal segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin.


L’ultimo libro di padre Enzo Fortunato mi ha, effettivamente, messo in difficoltà. La tunica e la tonaca sembra uno scioglilingua, un gioco di parole: due parole peraltro ormai abbastanza desuete, salvo la prima che si usa abitualmente in fisiologia e in medicina.

Ecco: partiamo proprio da qui. Dal paradosso fra l’estrema familiarità di due cose, di due oggetti, e l’estrema vaghezza delle immagini che ci salgono alla mente quando le udiamo e le leggiamo o le pronunciamo: sino al mistero di qualcosa di simile, ma d’altronde di ormai poco consueto.

Non c’è dubbio che in fondo si tratti di una sola parola, del latino tunica da cui si è sviluppato il termine tonaca in quel sermo vulgaris che molto presto durante il cosiddetto Medioevo ha generato la lingua italiana.

Quando? Se i primi attestati lessicali risalgono al IX–X secolo, in realtà si parlava più o meno così da molte centinaia di anni tra la gente, prima che i clerici – i saggi, i colti, evidentemente membri del clero – accettassero di accorgersene. E a quel punto, trattandosi ormai di termini appartenenti a due lingue affini ma diverse, si trattava di tradurre. Di fare quel che Umberto Eco, in uno dei suoi momenti di non rara – beato lui! – genialità, ha definito «dire quasi la stessa cosa».

È proprio in quell’avverbio tanto semplice eppure tanto problematico, in quel quasi, che sta racchiuso il senso e il mistero dell’impulso che ha spinto Enzo Fortunato a scrivere un libro così. Che è evidentemente, per molti versi drammaticamente, un libro autobiografico.

Che cosa mai può spingere un uomo del XXI secolo a vestire un abito come quello, che a volte può anche essere o sembrare un magnifico «abito di scena» ma altre, e più spesso, potrebbe apparire a molti di noi che non lo portiamo una prigione scomoda, alla lunga intollerabile e soffocante? Qualcuno lo ha molto superficialmente paragonato a un’uniforme, una «divisa »: e i rapporti, le somiglianze, senza dubbio ci sarebbero; e parecchi.

Ma c’è qualcosa di più. Qualcosa d’insondabile, di terribile, nascosto nelle pieghe di una veste così semplice e così quotidiana. Purtroppo non abbiamo più, se non in una troppo modesta misura, il senso del simbolo; si riflette poco sul sopra e sul sotto, sul fuori e sul dentro, sulla forma e sulla sostanza [...].

Ma padre Enzo non ha scritto alcun trattato né di liturgia né di storia degli usi e dei paramenti ecclesiastici. La sua attenzione parte da due nozioni generalissime e se si vuole archetipiche per giungere a toccare il nucleo intenso e nascosto d’una realtà nella quale cristologia e imitatio Christi si toccano [...].

Anzi prima di tutto la sequela Christi, la volontà di Francesco di seguire in tutto il modello di Gesù, nudus nudum sequi, fino alla morte e alla morte di croce. Dante, nel-l’XI canto del Paradiso, ha messo sulle labbra di Tommaso d’Aquino – sintomaticamente del cantore del sacramento eucaristico, l’autore del Tantum ergo – l’elogio di Francesco e di Povertà, nudi entrambi sul legno della croce. È vero: causa, non poena, facit martyrem. Francesco non è santo perché ha provato nella sua carne le medesime sofferenze del Salvatore. È santo perché, assumendo alla lettera la massima paolina, ha voluto mori, et esse cum Christo. Lo è perché ha saputo essere veramente alter Christus: fino a meritare addirittura quell’epiteto così indicibilmente sublime da apparire al limite del blasfemo: «Anticristo mistico».

In ciò l’umile tonaca del Povero di Assisi si presenta così simile alla tunica del Salvatore, a sua volta inconsutile come la Chiesa che deve tornare a riunirsi. Quanto alla «stauromorfia » dell’abito francescano, cioè alla sua somiglianza con la croce, non va dimenticato che a essa sola, come nemmeno a Maria né agli angeli né ai santi, bensì a Dio stesso, si deve il culto non di dulia bensì di latria: non di venerazione, bensì di adorazione.

Nella lingua russa, nella quale come forse in nessun altro idioma moderno sono penetrati a fondo i valori cristiani, la parola «croce» si esprime col termine krest, ch’è evidentemente la stessa parola che Christos. Vale la pena di riflettere davvero in profondo su quest’identità lessicologico– semantica.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI