venerdì 8 ottobre 2021
Alla pittrice americana il Pompidou dedica una retrospettiva che insegue il tema della sensualità femminile attraverso il cosmo e l’elemento floreale, il deserto e le sopravvivenze arcaiche
“Oriental Poppies”, un dipinto di Georgia O’Keeffe del 1927

“Oriental Poppies”, un dipinto di Georgia O’Keeffe del 1927 - .

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Nel 1916, preparando il terreno alla imminente mostra di Georgia O’Keeffe nella sua leggendaria Galleria 291, il fotografo Alfred Stieglitz scrive sulla rivista “Camera Work”, da lui stesso editata, che «i disegni della signorina O’Keeffe sono di un interesse notevole dal punto di vista psicoanalitico. 291 non ha mai visto una donna esprimersi così liberamente sulla carta». Stieglitz è stato “corteggiato” dalla giovane artista fin da quando nel 1908 lei vide in quella galleria – nata nel 1905 e chiusa nel 1917 dopo aver visto transitare nei propri spazi il fior fiore dell’avanguardia – una mostra dei disegni erotici di Rodin. Georgia da quel momento si prefigge di esporre alla 291, «e in nessun altro posto a New York». E farà molto di più, perché si legherà sentimentalmente a Stieglitz, fino a sposarlo dopo che questi avrà divorziato dalla moglie.

Stieglitz è stato un personaggio chiave per il radicamento dell’arte moderna in America, ma non come si potrebbe ipotizzare raccogliendo una eredità europea, nella fattispecie francese, rispetto alla quale anzi “resisteva” nella prospettiva di liberare la nuova arte da un giogo opprimente per aprirsi alla creatività più ampia e, in definitiva, per fondare una linea moderna americana che tale, fino a quel momento, non esisteva, soprattutto pensando al clamore suscitato dall’Armory Show nel 1913 che aveva portato una campionatura molto ampia delle forme espressive europee moderne (lì venne presentato da Duchamp il suo “ultimo” quadro, Il nudo che scende le scale, dopo il quale l’artista francese decise di abbandonare la pittura).

Georgia O'Keeffe, 'Series I White and Blue Flower Shapes',  1919

Georgia O'Keeffe, "Series I White and Blue Flower Shapes", 1919 - .

Ma se oggi parliamo ancora dell’Orinatoio (Fountain) di Duchamp non è per le repliche che l’artista firmò negli anni 60 istigato da Arturo Schwarz che lo convinse a realizzare una serie per ognuno dei suoi pezzi più celebri; no, lo dobbiamo piuttosto alla fotografia eseguita da Stieglitz nel 1917 dentro la sua galleria, dove Duchamp lo espose dopo il rifiuto ricevuto dai membri della Società degli artisti indipendenti a cui lo aveva presentato in forma anonima con la firma R.Mutt; quella foto non è solamente l’immagine dell’Orinatoio (che nel 1921 andò perduto) ma l’opera stessa, un vero e proprio teatro dove s’inscenano rimandi e sottintesi che giocano, per esempio, col quadro che fa da sfondo all’Orinatoio, dipinto da Marsden Hartley, un artista che all’epoca, grazie alla mediazione di Stieglitz, era stato in Europa per entrare nel giro delle avanguardie europee, e dopo la Grande Guerra era rientrato in America, esprimendo una volontà liberatrice delle forme che ispirerà Jackson Pollock.

Questa volontà liberatrice, oltre i dogmi di forma e contenuto, era un punto basilare sui cui Stieglitz decise cosa sostenere e presentare nella sua galleria. E fra gli artisti prediletti entrò anche Georgia O’Keeffe, che lui considerò subito tra i pionieri dell’arte yankee (d’altra parte, lo stesso Duchamp poneva l’Orinatoio nel solco della funzionalità tecnica, così che quell’opera poteva unire simbolicamente l'idea moderna della stanza da bagno e l’arte secondo la nuova ideologia americana). Parlando della sua futura sposa Stieglitz nel 1923 in una lettera scrisse: «Lei è americana, come me». Da notare che lui era di origini tedesche, e Georgia figlia di un irlandese e di una nobile ungherese il cui padre era emigrato in America nel 1848.

Questa inquadratura veloce sarà d’aiuto per comprendere il contesto nel quale ci muoviamo, così da non commettere l’errore di avvicinarci alla mostra che il Centre Pompidou dedica a Georgia O’Keeffe fino al 6 dicembre pensando di avere a che fare con un’artista naïve, un’artista che, tra fiori, deserti e paesaggi riarsi del New Messico delinea un mondo arcaico e astratto che solletica il gusto attuale per l’esotico e il primitivo come momenti dell’incontaminato e della pace spirituale. Ma il mondo della O’Keeffe è carnale e interiore al tempo stesso. Scheletri, bucrani, rocce, villaggi pueblo, feticci e bambole rituali, alberi e radici, forme simboliche che guardano a Kandinskij, Kupka, Malevic, Brancusi o Picasso, però iniziando dal patriarca Cezanne, primo dei suoi riferimenti quando prese a dipingere.

Georgia O'Keeffe, “White Flower 1”, 1932

Georgia O'Keeffe, “White Flower 1”, 1932 - .


Tutto in Georgia O’Keeffe è grembico, anzi è un “invaginamento” delle forme che, come fiori carnnivori, parlano del femminile: si delinea l’elemento originario che fluttua tra corpo e spirito, fra essere e non essere – come ricorda nel suo saggio Didier Ottinger –, citando Novalis che nel 1795 parlò di «qualcosa d’inesprimibile» davanti a cui «la filosofia si ferma e deve fermarsi », perché le mancano gli strumenti per definirlo. È questa la zona ineffabile dell’umano dove anche Hartley e Pollock si avventurano. L’artista americana, sebbene consacrata fra le maggiori del secolo scorso, è stata per molto tempo ignorata dai musei francesi (forse a sconto dell’“antipatia” di Stieglitz per la Francia). Tuttavia, la formazione culturale di Georgia è europea, guarda al romanticismo di Goethe e al misticismo cosmico di C.D. Friedrich; e comincia pittoricamente dalla montagna di Saint Victoire dipinta da Cezanne.

Eppure, nonostante il richiamo al sentimento femminile, qualcosa rende fredda questa pittura che trova la sua metafora nella proiezione erotica, fin da quando, leggendo D.H. Lawrence, Georgia vede nel fiore il “correlativo oggettivo” della sessualità e del femminino. E questo è quasi perturbante quando si osservano i ritratti fotografici che le ha fatto Stieglitz (ne hanno contati, fra volti e parti del corpo, oltre 350), perché mentre i dettagli hanno una morbidezza che tocca i sensi, le immagini dove Georgia compare col suo volto comunicano una durezza quasi scultorea, che, senza toglierle bellezza, denota caratteri persino mascolini. Mentre negli acquarelli di metà anni 10 si avverte una predisposizione sensuale che usa al meglio l’abilità tecnica – forse sarebbe stato meglio che la mostra indugiasse più a lungo su questa fase iniziale –, quando l’artista abbraccia l’astrazione (dopo aver letto il libro di Kandinskij sullo Spirituale nell’arte) e adotta la pittura a olio, se da un lato si palesa quella dimensione erotica nel tema floreale, dall’altro inizia a raffreddarsi la corrispondenza fra sentire e sapere tecnico; la pittura si stempera in forme strutturali à plat e il fiore, lontanissimo dalla forma lineare Art Nouveau, s'impone come protervo e gioioso simbolo erotico.

Questo “rispecchiamento” femminile per Stieglitz – lettore di Freud e di Jung – era un valore aggiunto che scardinava il puritanesimo del moralismo più intollerante e fanatico. Ma per Georgia, lettrice di Lawrence, il fiore – come scrisse l’autore inglese – incarna la fragilità umana, «la bellezza delle cose soggette al terribile imperio del cosmo». La mostra batte questa strada fin quando l’artista si stabilisce nel New Messico e trasforma il suo immaginario assimilando sia la tradizione paesaggistica della terra madre nella pittura di T.H. Benton, dove le montagne sembrano talvolta giganteschi corpi materni, sia la durezza dei coltivatori- pionieri di Grant Wood, mischiando tutto con le tradizioni dei nativi americani. Però con un linguaggio privo di ogni sentimentalismo etnico. Opere che identificano l’autrice a colpo sicuro e al primo sguardo, e questo prova la forza del segno, che mette a frutto, ed è stato poco sottolineato, quel linguaggio sintetico e icastico che Georgia acquisì credo lavorando da giovane nel mondo pubblicitario, dove l’immagine conta a volte più di ogni parola.

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