venerdì 7 gennaio 2022
Per il filosofo «gli spazi immersivi come il metaverso negano la natura iconica e si presentano come realtà. Servono categorie per affrontare la virtualizzazione dell’esistenza»
Andrea Pinotti: «Noi come Narciso nella realtà virtuale»

da Martin Sanchez/Unsplash

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Una antica leggenda cinese racconta che l’imperatore Xuan Zong chiese al pittore Wu Tao-Tzu di decorare una parete del suo palazzo con un paesaggio. Una volta terminata, l’artista invitò il sovrano ad ammirare l’immagine da vicino. Sul fianco di una montagna era dipinta una porta. Wu Tao-Tzu battè le mani e la porta si aprì: Wu Tao-Tzu vi entrò e la porta si richiuse alle sue spalle. Nessuno lo vide mai più.

Il racconto è uno degli spunti che guidano Andrea Pinotti, tra i principali studiosi di cultura visuale e docente di Estetica all’Università Statale di Milano, in Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale (Einaudi, pagine 234, euro 25), uno dei primi frutti di “An-Icon”, progetto da lui coordinato e sostenuto dal Consiglio Europeo della Ricerca.

Tra realtà e immagine c’è una soglia: spesso una cornice che definisce i campi reciproci e che distingue la rappresentazione dal suo modello. Ma cosa succede se questa soglia viene meno? È quanto accade negli ambienti immersivi, nei caschi di realtà virtuale, nella realtà aumentata. Per Pinotti il limite diventa un “passo carrabile”: «Queste immagini sono “ an- icone”, cioè immagini che, in modo paradossale, si sforzano di negare se stesse e il proprio statuto di immagini, per presentarsi a noi come se fossero la realtà di cui sono la rappresentazione».

Quali sono le caratteristiche di queste “immagini-nonimmagini”?

«Immersività, quasi un diktat oggi dalle mostre alle esperienze educative. Presenza: l’immagine non è più tenuta in maniera precauzionale entro un limite ma esonda e noi vi tracimiamo dentro. Immediatezza, ossia la trasparenza, l’invisibilità del medium, quando invece nell’immagine tradizionale è estremamente opaco. Le tecnologie attuali e certamente quelle future, che saranno sempre più leggere, impercettibili e “organiche”, rendono possibile un sogno inseguito dall’uomo da sempre. Il libro, con l’approccio dell’archeologia dei media, ne traccia una storia, dalle grotte del paleolitico alle camere dipinte rinascimentali, come la Sala dei Giganti di Giulio Romano, dal tema dell’attraversamento dello specchio fino al cinema. Ma anche il mito: Narciso racconta l’esperienza della perdita della coscienza della natura di un’immagine. La leggenda del pittore cinese che entra nel suo dipinto ci dimostra come questa sia una tendenza propria non soltanto della cultura occidentale, ma che le “immagini da abitare” sono probabilmente una struttura antropologica universale».

Un tema attuale come il metaverso rientra perfettamente in questo ambito.

«Noi cerchiamo di dare al progetto una panoramica interdisciplinare, senza la quale è impensabile affrontare la virtualizzazione dell’esistenza. Crediamo occorra sviluppare una coscienza critica, nel senso di un esame delle possibilità e dei limiti di queste tecnologie virtuali e aumentate. C’è la necessità di affrontare la questione degli ambienti immersivi tenendosi lontani dagli estremi: tecnofobici e tecnoentusiasti».

Il rischio è di essere impreparati?

«C’è certamente un’urgenza. Pensiamo a quanto rapidamente ci siamo abituati al touch screen. In pochi anni abbiamo fatto nostra l’esperienza che l’immagine sia da toccare e non solo da guardare. Abbiamo assimilato questo modo di relazionarci all’immagine nella vita quotidiana. Cosa può accadere allora in pochi anni di metaverso, dove l’immagine non è al di fuori ma vi siamo dentro? È necessario elaborare categorie che ci facciano capire cosa sta diventando la vita in dimensione immersiva. Che non riguarderà solo l’elemento visuale ma è destinata a svilupparsi in chiave multisensoriale, con guanti, tute tattili, stimolazioni olfattive».

Sono solo immagini che pretendono di essere realtà oppure sta cambiando la struttura della realtà stessa?

«Domanda difficile. Abbiamo bisogno di tempo per capire. Marshall McLuhan diceva che ci rendiamo conto di un medium solo quando l’abbiamo alle spalle. L’altro punto su cui è necessario insistere è l’aspetto applicativo, il rapporto tra realtà virtuale e “realtà reale”. Ci sono esperimenti in corso su cosa accade quando usiamo un avatar digitale per far sì che qualcosa si riverberi nel mondo reale. Ci sono ambienti immersivi progettati per ridurre i pregiudizi razziali oppure per curare le sindromi da stress post traumatico dei militari. Ci sono esempi di “giornalismo immersivo” per vivere una giornata tra i migranti. Immergendoci entriamo in quel mondo ma quel mondo riemerge nel nostro e si presenta con forza trasformativa notevole».

Sempre McLuhan sosteneva che ogni nuova protesi tecnologica corrisponde all’amputazione di una facoltà del corpo umano. La realtà virtuale, il visore, la tecnologia immersiva cosa stanno atrofizzando?

«Quando indosso un casco VR vengo trascinato in un altro mondo. Si ha così un effetto di telepresenza. Sono in due posti contemporaneamente: il mio luogo fisico e quello della mia esperienza – ma è in quest’ultimo che mi sento principalmente. Questo mi allontana dal mio corpo: guardo le mie mani ma non le vedo. C’è una presenza al mondo virtuale e una assenza a me stesso. Il tema dell’avatar è cruciale come mediatore di questi due mondi».

La caduta della distinzione tra immagine e realtà può avere conseguenze sulla democrazia? Il rapporto tra immagine e potere è originario.

«Siamo di fronte all’emergere di nuovi tipi di soggettività, non solo estetica ma costitutivamente politica, che interrogano sulle forme della partecipazione democratica in modalità digitale. Ormai soggetti che sono entità digitali entrano nello spazio politico comune, anche in modo eclatante: pensiamo a Jean-Luc Mélenchon che nel 2017, durante la corsa all’Eliseo, è comparso simultaneamente in sette città come ologramma. Nel sistema, inoltre c’è una promessa di emancipazione del punto di vista. In un ambiente immersivo mi posso girare nel fuori campo: possiamo uscire dalla volontà tirannica del pittore, che rende inaccessibile ciò che c’è fuori dalla cornice. Ma questa è un’illusione: è importante sviluppare la consapevolezza che qualcuno ha deciso di installare una telecamera a 360° in un punto dello spazio. Chris Milk parla di una promessa di empatia definitiva. È qualcosa su cui dobbiamo stare molto attenti».

Questo superamento della soglia tra immagine e reale contiene una questione metafisica?

«Questi temi hanno uno sfondo teologico forte. Avatar è un termine sanscrito per indicare l’incarnazione di un dio. La teologia ortodossa dell’icona parla di presenza di Cristo e dei santi, e la questione della “presenza” nell’eucaristia è una tensione forte all’interno della storia del cristianesimo. Il dibattito che si muove attorno a questioni cristologiche tra reale presenza e semplice rappresentazione ci aiuta a capire i problemi posti dalle nuove immagini che negano se stesse. Questi ambienti ci costringono a riattivare gli orizzonti di senso formulati nei decreti di Nicea».

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