martedì 22 novembre 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Per sottoscrivere un contratto bisogna essere in due. E dunque non c’è da stupirsi se la Fiat, che non si riconosce più nel contratto nazionale dei metalmeccanici e in alcune intese aziendali ha deciso di dare la disdetta di tutti gli accordi sindacali relativi al gruppo. Piuttosto, ora occorre capire quali margini di azione questa prova di forza lasci ai sindacati e soprattutto ai lavoratori della casa automobilistica.La Fiat da tempo lamenta di non poter operare come vorrebbe, per rispondere secondo le proprie strategie alle sfide competitive del mercato dell’auto. Perciò ha tentato di convincere i sindacati a cambiare alcune norme del contratto nazionale, chiedendo da un lato più flessibilità sugli orari e l’organizzazione del lavoro, dall’altro una maggiore responsabilizzazione contro l’assenteismo e gli scioperi.Come sappiamo, mentre Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic e Ugl hanno accettato la sfida – scelta confermata dalla maggioranza dei lavoratori a Pomigliano d’Arco, Mirafiori e Grugliasco (intese che non vengono disdettate) – la Fiom-Cgil ha sempre detto no. Assumendo una posizione fortemente ambigua nelle indicazioni di voto e dando il via a una serie di ricorsi alla magistratura. Il tribunale, di fatto, ha dato ragione alla Fiat, riconoscendo validità ai contratti aziendali sottoscritti, e limitandosi a condannare il gruppo automobilistico per aver escluso la Fiom dalla rappresentanza sindacale (peraltro secondo una norma dello Statuto dei lavoratori). Per la Fiat si è trattato evidentemente di un risultato ancora troppo incerto e così nei mesi scorsi ha deciso prima di uscire da Confindustria e ieri di annunciare la disdetta di tutti i contratti.Siamo all’«atto incostituzionale», all’«eversione», al «fascismo aziendale» come già strillano alcuni esponenti barricaderi della Fiom e della sinistra estrema? Evidentemente no. Nessuna norma della Costituzione obbliga un’azienda ad applicare un determinato contratto nazionale o a riconoscere un sindacato a prescindere dalle leggi e dagli accordi che regolano la materia. E, secondo quanto è dato di capire, non siamo neppure all’atto che prelude una smobilitazione della Fiat dall’Italia, come altri paventano. Un’impresa che intenda chiudere uno o più stabilimenti non si imbarca in una procedura complessa come la disdetta dei contratti nazionali e aziendali. Se Fiat volesse chiudere uno stabilimento lo annuncerebbe – come (purtroppo) ha fatto lo scorso anno per Termini Imerese –; se volesse fuggire dall’Italia adotterebbe una strategia assai più prudente e non avrebbe ristrutturato lo stabilimento di Pomigliano riportandovi la produzione della Panda. In realtà, come traspare dal testo della stessa lettera inviata da Fiat ai sindacati, il gruppo intende promuovere «incontri finalizzati a valutare le conseguenze del recesso ed eventualmente alla predisposizione di nuove intese collettive aventi ad oggetto le tematiche sindacali e del lavoro di rilievo aziendale, con l’obiettivo di assicurare trattamenti individuali complessivamente analoghi o migliorativi rispetto alle precedenti normative». Arrivare cioè a stringere un nuovo contratto-cornice valido per tutto il gruppo, che preveda poi alcune norme specifiche per le situazioni dei singoli stabilimenti.In questo momento la Fiat è in posizione di forza rispetto ai lavoratori.br. Ma, appunto, per sottoscrivere un contratto bisogna sempre essere in due. Marchionne dovrà dunque concordare con i sindacati (Fiom compresa, se vorrà restare nelle fabbriche e non autoescludersi) un 'buon' contratto, che sia soddisfacente non solo per sé ma anche per le sigle chiamate a sottoscriverlo. E dovrà soddisfare anche la maggioranza dei lavoratori, che saranno chiamati a votarlo per dare al patto stesso validità sicura. In caso contrario, infatti, in assenza di un nuovo accordo valido, la Fiat sarebbe costretta sempre ad applicare i vecchi contratti.Nonostante l’uscita da Confindustria, al di là delle disdette.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: