venerdì 17 maggio 2024
Pubblicate in edizione critica le quaranta lettere immaginarie scritte durante gli anni del patriarcato a Venezia a personaggi reali e fittizi. Una narrazione attualissima del messaggio conciliare
Albino Luciani (1912-1978)

Albino Luciani (1912-1978) - .

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«Dicevo all’egregio professor Vittore Branca: “Qui succede il contrario di quello che avviene di solito nel mondo della cultura: non è più lo studioso che viaggia da una biblioteca all’altra, qui, invece, sono le biblioteche che hanno viaggiato e si sono raccolte per la comodità dello studioso”». Sono suggestive queste parole riemerse dagli archivi dell’allora Patriarca di Venezia Albino Luciani che negli anni Settanta lo vedevano presiedere «assiduo e attentissimo» agli incontri culturali presso la Fondazione Cini nell’isola di San Giorgio, davanti a San Marco. Lì dove il Petrarca per primo concepì l’audace progetto di una biblioteca aperta nel cuore della Repubblica di Venezia.

E proprio dal ventiquattresimo libro delle Familiares del Petrarca, indirizzato «a certi illustri antichi», Luciani aveva trovato ispirazione per il titolo della sua silloge veneziana di quaranta lettere immaginarie, Illustrissimi, destinate a un caleidoscopio di personaggi reali e fittizi. L’unico suo volume che da Papa, nei trentaquattro giorni del suo pontificato, volle ridare alle stampe con la sua revisione e il suo imprimatur. Un’opera squisitamente letteraria che, attraverso il lavoro sulle fonti, per la prima volta è pubblicata in edizione critica, quale emblema di una formazione vastissima, di una singolare officina del testo e del dialogo tra le carte e i libri della sua personale e inseparabile biblioteca. Come mostra, tra le altre, la lettera immaginaria «Noi siamo lo stupore di Dio», indirizzata allo scrittore francese Charles Péguy. Attraverso la ripresa di una delle immagini più originali contenute nella trilogia dei Mystères di Péguy, Luciani introduce il colloquio sulla speranza, tema centrale della lettera, la cui filigrana è rintracciabile nel venticinquesimo canto del Paradiso di Dante, dedicato a questa virtù teologale. Anzi, il canto, dal verso al verso 67 al 75, costruisce la struttura stessa della lettera. «D’accordo con te, caro Péguy, che la speranza stupisce. D’accordo con Dante ch’essa è uno attender certo »: «Spene», diss’io, «è uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto». Versi che vengono ripresi più avanti: « L’attender certo della gloria futura, come dice ancora Dante». È il passaggio del Paradiso sull’aspettazione certa della salvezza che non si trova solo in Illustrissimi, ma è in diversi scritti di Giovanni Paolo I.

Gli stessi versi sono citati nell’omelia di fine anno del 31 dicembre 1961, anche questa interamente costruita a partire dai canti XXIV, XXV e XVI del Paradiso. Luciani spiega ai fedeli cosa significa avere fede, speranza e carità per aiutarli a un esame di coscienza e per farlo prende spunto proprio da questo «esame di cristianesimo». In quei canti Dante viene infatti esaminato da san Pietro sulla fede, da san Giacomo sulla speranza e da san Giovanni sulla carità. È il brano che viene ripreso anche all’udienza generale del 20 settembre 1978 sul tema della speranza.

Dante si manifesta quale punto di riferimento della sua predicazione anche nel radiomessaggio Urbi et Orbi del 27 agosto 1978, in cui Cristo viene definito, con una citazione biblica dal libro del profeta Malachia, « sol iustitiae ». È Carlo Ossola a far notare, nell’introduzione al Magistero ( Testi e documenti del pontificato, curato dal Comitato scientifico della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I), come questa formula biblica abbia una lunga tradizione patristica culminante proprio nella Commedia di Dante, dove tale concetto è fondante. Sempre nella lettera immaginaria a Péguy, sulla speranza scrive: «La conosciamo almeno vagamente? O farneticava Dante, quando tentò di descriverla come luce, amore e letizia? “Luce intellettuale”, perché la nostra mente vedrà lassù chiarissimamente quello che quaggiù aveva intravisto appena: Dio. “Amor di vero bene”, perché i beni che amiamo qui sono un bene, goccioline, briciole, frammenti di bene, mentre Dio è il bene. “Letizia che trascende ogni dolzore”, perché non c’è paragone tra quella e le dolcezze di questo mondo».

Cita i versi 40-42 del canto XXX del Paradiso: «Luce intellettual, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore». Gli stessi versi che si trovano nella lettera per la quaresima del 12 febbraio 1961, che rappresenta l’ipotesto della lettera a Péguy. Dell’opera di Dante, dunque – la voce autorevole che ha saputo dire con parole sublimi ciò che deve essere annunciato – la Commedia, dal momento che è conosciuta e studiata da tutti gli italiani, è anche un riferimento comprensibile e un codice condiviso che garantisce l’efficacia della comunicazione religiosa. La conoscenza della Commedia, e della letteratura, viene così a costituire l’intelaiatura dei suoi discorsi e diviene perciò per Luciani mezzo piegato al servizio dell’evangelizzazione.

Nello scritto del 20 giugno 1965, dedicato al tema mariano nella Commedia – come ha in modo sistematico osservato Simone Martuscelli nel suo recente saggio Soave e Piano. Il discorso letterario nel magistero di Albino Luciani edito da Marcianum Press, nell’ambito del progetto di recupero e tutela della biblioteca sostenuto dalla Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I a seguito dell’edizione critica di Illustrissimi – rappresenta «la messa in pratica dell’idea lucianiana di utilizzo della letteratura a fini pastorali». Luciani propone ai sacerdoti alcune riflessioni sui sette quadri mariani della seconda cantica dantesca «a scopo di edificazione» e passando in rassegna le cornici riporta il connesso episodio della vita di Maria. Ogni balza è spunto per una riflessione pastorale in cui si susseguono citazioni da Agostino a Manzoni, da Isaia a Hemingway.

La struttura del Purgatorio è argomento anche dell’omelia pronunciata in occasione della festa della Madonna della Salute del 1974, costruita a partire dalle sette cornici. Per ognuna di esse Luciani fa una breve esegesi e trae spunto per un discorso sull’attualità. Parlando dei superbi tratta il tema dei gruppi anticostituzionali e del terrorismo. La balza degli invidiosi diventa occasione per parlare di solidarietà e giustizia sociale. La visione degli iracondi è invece indicata come un invito a «sopire e sanare i contrasti che oggi travagliano il Paese e la Chiesa». La corsa di Maria evocata nella quarta balza dà spunto per condannare ogni negligenza: « In un modo che cambia rapidissimamente nella mentalità e nelle strutture è doloroso vedere i buoni perdere tante volte il treno e arrivare in ritardo». La quinta balza offre infine occasione per dichiarare l’accordo di Dante con il Concilio Vaticano II.

Nella lettera immaginaria indirizzata al musico Casella in Illustrissimi Luciani dichiara così piena adesione a Dante. Anzi: Dante diventa paradigma, perché Dante «è andato incontro al mondo, ha accolto tutte le lingue», la sua Commedia è scritta in lingua corrente, quindi per Luciani, Dante appartiene all’oggi: «Dante è attuale, Dante è con il Concilio». È significativo che egli portasse sempre con sé proprio un’edizione tascabile della Commedia, da lui chiosata, volume che oggi fa parte del lascito veneziano.

Negli anni del suo patriarcato a Venezia, il futuro Giovanni Paolo I vide realizzarsi il sogno di una ricerca, nella ripresa dei classici e del passato, degli elementi di comprensione del presente. Il 7 settembre 1978 ricevendo da Papa il suo amico filologo cattedratico a Padova Vittore Branca, con la familiarità di sempre nello studio del suo appartamento in Vaticano, a lui confidava: « Bisognerebbe che la cultura sapesse infondere nell’umanità quel supplemento d’anima che solo può assicurare la salvezza a questo nostro mondo straziato e tormentato». Mancavano pochi giorni all’appuntamento culturale a Venezia promosso dalla Fondazione Cini dedicato a “L’umanesimo di Tolstoj”. «Parlammo anche di questo convegno», scrisse Branca in una sua memoria «e mi disse: “Come avrei desiderato sentire qualcosa da critici letterari, da filologi e da filosofi, da narratori e da poeti, su questo che è stato uno dei grandi autori della mia giovinezza. La sua fine ad Astàpovo è stata una ricerca in avanti o una fuga dalla vita?”».

Sono parole che tracciano indelebile non solamente il solco di una viva compartecipazione, ma il segno ancora di quel “supplemento d’anima” con il quale avrebbe continuato ad accompagnare la comprensione del presente adoperandosi nel generare sempre più larghe e aperte intese culturali fra i popoli, quale erede di una conciliazione di cristianità e umanesimo che abbraccia anche la funzione del Papa. Come egli stesso afferma nel suo radiomessaggio del 27 agosto del 1978 citando Ignazio d’Antiochia: «La funzione del Papa è quella che presiede alla carità universale, operando sempre per la reciproca conoscenza, da uomini a uomini».

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