mercoledì 17 febbraio 2016
Adozioni e coppie gay, l'ingiusta strada
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​«Comprare non è amare». Uno slogan che sembra inventato ora, e che invece risale agli anni 80 del Novecento. Fu l’Anfaa, l’Associazione famiglie affidatarie e adottive, a coniarlo: si era nel bel mezzo della battaglia per regolamentare le adozioni e per fermare quello che allora veniva chiamato «il traffico dei bambini». Venne varata la legge 184 del 1983, che al centro poneva – e pone – l’interesse del minore senza famiglia: avere una madre e un padre, eventuali fratelli e sorelle. Una legge piena di buoni princìpi, cui seguì quella di ratifica della Convenzione dell’Aja, nel 1998, che diede riconoscimento e pari dignità all’adozione internazionale. Leggi non sempre ben attuate e perfettibili, è vero: ci sono ancora tempi lunghi e non sempre giustificabili per arrivare a decidere sull’adottabilità dei minori, scarso sostegno nel post-adozione, soprattutto dei casi più "difficili", con famiglie abbandonate dalle istituzioni, attese scoraggianti e non sempre comprensibili, troppi enti accreditati tra cui scegliere per realizzare le adozioni internazionali. Il risultato è che in Italia da anni si assiste a un calo delle adozioni e a un parallelo aumento del ricorso alla fecondazione artificiale, anche all’estero.Ora gli Enti autorizzati e le associazioni familiari lanciano un nuovo allarme: il trattamento delle coppie omosessuali in maniera analoga per molti versi a quelle eterosessuali sposate finirà per assestare nei fatti un altro serio colpo all’adozione internazionale: molti Paesi di provenienza dei bambini chiuderanno le porte agli italiani perché non desiderano che i "loro" piccoli, nemmeno per ipotesi, possano essere allevati da coppie composte da due persone dello stesso sesso.C’è tuttavia un altro aspetto che preoccupa le associazioni (e non solo) nell’attuale dibattito sul ddl cosiddetto Cirinnà. È l’impatto culturale della stepchild adoption, e di ciò che potrebbe portare con sé in termini di ricorso alla maternità surrogata.

STEPCHILD, UN COLPO ALLE ADOZIONI

Un’altra picconata all’idea che ha ispirato la legge 184: il bambino al centro, «comprare non è amare». Il fine (avere un figlio) non può giustificare i mezzi (allora era il traffico di minori già nati, ora tutto si è complicato… ). Ciò vale per le coppie omosessuali e per quelle eterosessuali. Qui non è in discussione il desiderio di genitorialità: il punto  è il "mezzo" con il quale si esaudisce quel desiderio, quali risorse si mettono in campo: economiche proprie e fisiche altrui, nel caso della maternità surrogata.«#iosonoundono», affermano i ragazzi adottivi che si confrontano sul sito internet dell’associazione Aibi. Potranno dire altrettanto di sé i ragazzi nati da un contratto? Quali risposte daranno alla fatidica domanda che i figli adottivi, da adolescenti, si pongono: da dove vengo? perché sto al mondo? Chi sono mio padre e mia madre? perché sono stato adottato? È venuto il momento, allora, di non confondere le acque, di ridare alla parola "adozione" il suo valore. Accogliere, essere accolto. Diventare figlio, finalmente. Crescere con un padre e una madre. E ora non si può più rinviare: spetta al governo rimettere l’adozione, quella regolata dalla legge 184, al centro del dibattito, fermo da troppo tempo su altre formule. Partendo dai bambini in effettivo stato di adottabilità per dare loro la famiglia cui hanno diritto (e non viceversa). Attuando la normativa, migliorandola, ma partendo da lì.Migliaia di famiglie italiane e altrettanti bambini già nati, soli, aspettano che siano tolti gli inciampi, come hanno chiesto peraltro 35 interpellanze parlamentari negli ultimi anni. Che ripartano i rimborsi, fermi al 2011, di parte delle spese (perché non tutte? Ormai, persino la fecondazione eterologa in molte Regioni è in sostanza gratuita…). Che funzioni al meglio la Commissione per le adozioni internazionali, che si razionalizzi l’albo degli Enti autorizzati. Insomma, è tempo che l’adozione, la "vera" adozione, ritorni a essere sinonimo di "amore", non pretesa di trasformare desideri in diritti.

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