venerdì 18 gennaio 2013
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​Ci sono povertà più gravi e più profonde rispetto a quelle determinate dalla crisi economica. Povertà che prosciugano l’anima delle persone e delle famiglie e rendono più sterile e quindi più fragile il cuore dell’intera società. Il nuovo calo delle adozioni (meno 22,8% nel 2012 rispetto all’anno precedente), ultimo segnale di un trend negativo ormai consolidato da anni, che va ad aggiungersi al crollo dell’affido familiare (meno 700 nel biennio 2008-2010), va iscritto in questo quadro di impoverimento progressivo della pubblica generosità. Un grande puzzle che può servire per misurare il tasso complessivo della civiltà solidale in cui viviamo e le cui tessere sono rappresentate dai nostri comportamenti individuali. Troppo spesso diamo per scontato il fatto che la civiltà sia una ricchezza acquisita per sempre. Purtroppo non è così. Scelte individuali criticabili, in ogni ambito della vita privata, finiscono per corrompere prima o poi l’intero quadro sociale. I grandi laicisti sorridono quando la teologia evoca la valenza sociale del peccato. Basterebbe invece mettere da parte per un attimo i pregiudizi e valutare serenamente quante categorie di male diffuso e consolidato, troppo spesso derubricate pubblicamente a prassi comune, finiscono per pesare inconsciamente sulle scelte di ciascuno e contribuiscono quindi a prosciugare le riserve del bene pubblico. Quanto il calo delle adozioni sia legato al consolidarsi di questa indifferenza collettiva e quanto invece siano determinanti i contraccolpi della povertà economica, è impossibile da accertare. Sicuramente, quando una famiglia vede vacillare le prospettive di lavoro ed è costretta a tagliare dolorosamente i bilanci domestici, i progetti di adozione finiscono per essere rimandati a tempi più favorevoli. Anche perché la strada per adottare un bambino – soprattutto in Italia – non è solo complicata da passaggi burocratici estenuanti, ma risulta troppo spesso molto, molto costosa. Lo sanno bene le coppie costrette a trasferirsi anche per due o tre mesi in angoli remoti dell’Est europeo o dell’America Latina nell’attesa che un tribunale decida di mettere qualche timbro su un po’ di scartoffie e renda così possibile il compimento di un iter che, non di rado, è stato avviato due o tre anni prima. Le coppie che riescono a passare indenni attraverso queste forche caudine mostrano non solo motivazioni ideali ben salde, ma anche una tenuta coniugale capace, nelle dinamiche della relazione, di assorbire i contraccolpi più aspri senza perdere di vista l’obiettivo. Quante sono oggi le famiglie così? In una temperie culturale che non perde occasione per tentare di impoverire il matrimonio tra uomo e donna, e ne minimizza il valore sociale, non ci si deve stupire se le coppie "robuste" per propositi e prassi, disponibili ad affrontare il percorso ad ostacoli della burocrazia pre e post-adozioni, siano sempre di meno. Il cammino verso un figlio adottivo è infatti una sorta di gravidanza di coppia, di durata ed effetti collaterali spesso più impegnativi e imprevedibili rispetto a quella biologica. Non è una strada per tutti e sarebbe sbagliato auspicare un approdo di massa. Ma le coppie che decidono di avviarsi lungo questa via, resistendo per esempio alle chimere illusorie e disorientanti della fecondazione artificiale, non offrono risposte soltanto al loro desiderio legittimo di offrire e regalare affetto, ma compiono anche una scelta di civiltà che arricchisce tutti. Accrescere la considerazione sociale dell’adozione e preparare strumenti legislativi meno complessi e scoraggianti degli attuali, sarebbe doveroso per accompagnare queste decisioni coraggiose e renderle sempre meno sporadiche.
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