venerdì 7 febbraio 2025
La scomparsa a 55 anni dello psicologo clinico dell’Istituto dei Tumori di Milano, esperto di spiritualità della cura, ha destato profonda emozione. L’omelia al suo funerale di don Tullio Proserpio
Carlo Alfredo Clerici

Carlo Alfredo Clerici

COMMENTA E CONDIVIDI

Si è spento nella notte fra il 3 e il 4 febbraio all’Istituto dei Tumori di Milano, dov’era ricoverato da qualche giorno per l’aggravarsi della sua patologia oncologica, Carlo Alfredo Clerici, professore associato in Psicologia clinica nel Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università degli Studi di Milano, presso lo stesso Istituto. 55 anni, genovese, intelletto universale, conoscitore approfondito e documentato di infiniti aspetti dell’attività medica, da ultimo l’Intelligenza artificiale, era un appassionato e fine teorico della spiritualità della cura, tema sul quale aveva scritto un libro fondamentale (La spiritualità nella cura. Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale, San Paolo 2022) a quattro mani con il suo grande amico don Tullio Proserpio, cappellano presso l’Int, del quale pubblichiamo l’omelia al funerale nella chiesa di Santa Maria Segreta a Milano, il 5 febbraio.

Non è mai semplice celebrare un funerale, a maggior ragione celebrare il funerale di un caro e prezioso amico, conosciuto sin dai primi tempi della mia presenza in Istituto, ormai diversi anni fa. Si potrebbero dire molte cose su una persona come Carlo, provo a condividere solo alcune suggestioni.
Siamo qui presenti con la verità e autenticità di noi stessi. Molteplici sono i sentimenti così come i motivi che ci raccolgono oggi in questa chiesa per vivere questa celebrazione. Da parte di quanti si dichiarano credenti diviene il momento in cui si desidera consegnare l’anima del caro Carlo nelle braccia misericordiose di Dio Padre; per quanti non si riconoscono credenti ritengo sia comunque un momento di particolare e intenso raccoglimento oltre che di riflessione. E credo di sapere bene quanto sia difficile definire “credente e non credente”: teoricamente è semplice poter definire; nella concreta realtà diviene tutto più problematico; sono comunque dimensioni profonde che abitano tutti noi con i numerosi interrogativi e domande.
Siamo sempre impegnati nei nostri molteplici doveri quotidiani, tutti importanti e necessari, a tal punto che spesso affermiamo di “non avere tempo”, poi un caro amico muore e queste situazioni ci riportano alla dura realtà del morire che ci fa male, ci fa soffrire, ci fa pensare, e allora tutto cambia; gli impegni si rinviano, ciò che era fondamentale e inderogabile, ci si rende conto diventa un po’ meno importante e necessario.
Nascono le molteplici domande, i diversi interrogativi, legati alla realtà, al senso della propria vita e altrui esistenza, al cosa c’è, se c’è qualcosa dopo la morte... Momenti nei quali si fa comunque fatica a eludere l’interrogativo profondo che abita il cuore di ciascuno: che senso ha la vita, la mia vita? Per che cosa sto spendendo la mia esistenza?
Non credo ci sia una risposta giusta o meno, è la mia risposta che sono chiamato a dare innanzitutto a me stesso e che l’evento della morte di una persona comunque conosciuta e cara fa sgorgare dentro di noi.
Ricordando in ogni caso che di fronte alla morte del proprio figlio, del proprio marito e papà, rimane la lacerazione e la sofferenza per questa morte, che appare sempre ingiusta. Questa fatica la viviamo tutti, credenti e non credenti. Razionalmente riusciamo a sistemare la situazione senza difficoltà ma questi lutti toccano le nostre interiorità e diviene più complicato sistemare il quadro complessivo.
Stiamo celebrando l’anno giubilare che inneggia alla speranza, riprendendo le parole di san Paolo, come riportato nella Bolla d’indizione del Giubileo: “La speranza non delude” (Rm 5,5), e tuttavia, al di là di ogni altra considerazione, anche una simile affermazione non toglie il peso e la sofferenza di vivere questo momento.
Ho conosciuto Carlo lungo tutti questi anni condivisi in Istituto. Lui quale professionista impegnato per aiutare e sostenere le persone ammalata, in particolare in Pediatria, insieme alle famiglie coinvolte. Molti potrebbero raccontare il bene che ha seminato lungo tutti questi anni. Una frase detta da un medico che lo ha avuto in cura, e che mi è stata riportata, credo dica bene la verità e autenticità di Carlo: «Mi dispiace, era uno che portava pace!». Credo fosse questo uno dei suoi grandi desideri, aiutare per favorire sempre un clima di pace e serenità. Quanto soffriva nel vedere le continue divisioni presenti in Istituto e non solo. Quanto soffriva nel non poter aiutare a dissolvere il clima invelenito per situazioni particolari.
Non sopportava l’ingiustizia sempre a scapito dei più deboli e indifesi, di coloro che si mostravano incapaci di tutelare la propria persona. Non accettava che in nome del profitto si potesse passare sopra ogni cosa. Dialogando con lui ricordavo lo stile che avevano assunto le levatrici egiziane che seppero opporsi alla tirannia del Faraone, che voleva uccidere tutti i figli maschi degli ebrei; questa loro capacità e tenacia offrì la possibilità di sviluppare ulteriormente il piano e desiderio di Dio nei confronti dell’umanità.
Aveva a cuore la sorte del nostro sistema sanitario, così fortemente minacciato da interessi variegati; avvertiva come un dovere sociale prendersi carico anche di questo aspetto non secondario, peraltro, nella vita di ciascuno, un patrimonio che non poteva e non può essere svenduto. Diceva: «Non può la sola logica del profitto e del potere avere sempre la meglio rispetto alle persone ammalate».
Sapeva riconoscere l’importanza della gentilezza e del ringraziamento in particolare verso le persone poco riconosciute dal sistema nel quale ci troviamo, quelle persone che non contano. Mi diceva una volta, lo scorso settembre: «La differenza nella giornata del paziente la fanno le persone che lavorano a contatto con il tuo corpo e pur nella fatica del lavoro, trovano occasione di gentilezza e grazia». Una frase talmente bella, vera e importante che l’avevo utilizzata per il mio “pensiero spirituale” quotidiano, anche se inviato in forma anonima.
Era affascinato dalla figura del cardinale Martini, con la creazione della “Cattedra dei non Credenti”, per il coraggio con cui il cardinale Martini si metteva in ascolto di ogni voce su un tema così delicato e particolare. Carlo che si dichiarava non credente, o forse credente in modo particolare, perché le risposte della religione cristiana, come le aveva imparate da piccolo, non erano in grado di offrire risposte persuasive. Era infastidito peraltro nel sentire risposte di pura teoria, offerte da quanti si mostrano incapaci di scendere nel profondo degli interrogativi autentici che abitano il cuore di coloro che hanno invece il coraggio di lasciarsi interrogare ed insieme interpellare dalla realtà.
Da parte mia posso dire che mi ha voluto realmente bene, proprio come un caro amico. Ci siamo aiutati e sostenuti reciprocamente soprattutto nei momenti più complicati; gli amici lo sanno (si potrebbe raccontare parecchio!)
Per quanti si riconoscono nella fede cristiana mi sembra significativo guardare al Vangelo e alla promessa di Gesù: «Vi prenderò e sarete con me», così come ricordare un passo del Vangelo delle beatitudini laddove Gesù dice: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Carlo si è fatto vicino ai molti segnati dalla malattia, dal dolore, dalla paura, dal pianto, dalla sofferenza, dall’ingiustizia..., la promessa è che trova, già ora, ricompensa in Cielo. I molti che ha accompagnato lungo il percorso di malattia e fatica già lo accolgono nella dimora del Signore in Paradiso. Ricordando che al termine della vita non saremo giudicati sulla nostra appartenenza religiosa, la frequentazione ai sacramenti, alla vita di parrocchia o altro: saremo giudicati sull’amore. Come ci ricorda il Vangelo di Matteo 25: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me!». Questa prospettiva prima che religiosa è profondamente umana, proprio per questo è universale.
Perché il Dio cristiano davanti al quale Carlo si è interrogato è un Dio il cui Volto, rivelato pienamente da Gesù, è amore e misericordia. Quanto facciamo fatica a credere che il Dio cristiano sia così, un Dio lontano da ogni forma di legalismo! Un Dio che non castiga e punisce, ma desidera manifestare amore e benevolenza verso ciascuno di noi, semplicemente perché siamo suoi figli. Un amore che è incondizionato, cioè senza condizione, da parte di Dio perché, come ogni buon padre e madre, ama i propri figli non perché bravi, perché diligenti, perché perfetti: ama i propri figli semplicemente perché sono, siamo, figli.
Chi è padre e madre queste le cose le capisce molto meglio rispetto a chi genitore non è. Credo che questo amore lo abbiamo intuito e visto nell’agire concreto di Carlo verso chiunque fosse nella fatica e nel bisogno.
I modelli quali il successo, il denaro, il prestigio, il potere, la carriera, la bellezza e tutto quanto ci viene proposto come in grado di offrire pienezza di senso, confrontati con le situazioni di malattia importante e con l’esperienza della morte, mostrano il loro volto deludente: ho bisogno di altro, e mi sento di dire che non aiutano a vivere in modo umano questo nostro mondo.
Davanti alla realtà della morte sono molte le domande e gli interrogativi veri che nascono dal profondo del nostro cuore; credo che nessuno possa essere così presuntuoso e arrogante da ritenere di poter dare risposte certe date una volta per sempre.
Questo discorso è valido per tutti; colui che si definisce credente, colui che si definisce non credente, colui che si definisce in altro modo. La realtà umana, che ci mette tutti sullo stesso piano può aiutarci a riconoscere la nostra comune povertà, la nostra incapacità a trovare risposte pienamente persuasive.
Il Vangelo, consentitemelo, è solo per quanti riconoscono di non saper dare risposte a queste e molteplici altre domande che abitano il cuore di ogni persona, e proprio per questo vivono in continua ricerca.
Chi nella vita ha già capito tutto, anche davanti a situazioni drammatiche, chi ha già tutte le risposte alle domande vere, difficilmente si aprirà a una Parola come quella del Vangelo. Lo dico con grande rispetto: non gli serve.
La Parola del Vangelo vuole offrire un percorso, una prospettiva, una speranza, che il “per sempre” è oltre questo mondo. Sono le buone relazioni che offrono speranza!
Questa è la fede dei semplici, dei poveri, la fede di chi riconosce di avere bisogno, di non riuscire a tenere insieme la parola buona del Vangelo con la realtà che spesso smentisce in modo clamoroso quella stessa Parola. Una vita intera trascorsa in Istituto inevitabilmente pone questi e altri interrogativi. Credere in un Dio Padre buono e provvidente e insieme guardare l’incessante situazione di malattia, dolore, sofferenza, ingiustizia, dei molti che ancora oggi varcano la soglia dell’Istituto e non solo.
Vogliamo fidarci e credere che fino a quando ci sarà un povero che grida a Dio il proprio bisogno, il proprio dolore, la propria paura, la propria angoscia, fino a quando nel mondo ci sarà un povero così, c’è speranza per tutti, perché il Signore ascolta il grido del povero.
È la fede di chi sa leggere nella debolezza e povertà di un segno la promessa di una speranza. Ma sono solo segni, lo ripeto spesso: dietro ogni segno c’è sufficiente luce per credere e sufficiente ombra per non credere, è garantito lo spazio per la libertà.
La prospettiva della fede non restituisce nulla di quanto si è perduto ma può aiutare a sostenere la fatica e aprire il cuore alla speranza: non siamo in cammino verso il nulla, verso la fine, ma in cammino verso il fine, la comunione piena con il Signore. Quella comunione di cui fin d’ora Carlo, insieme ai suoi cari defunti, è partecipe in Paradiso con quel Signore Dio che lo ha chiamato all’esistenza e che ora personalmente conosce.
Dal Paradiso Carlo continuerà a pregare e intercedere in modo particolare per la sua amatissima figlia Celeste, con la sua amata moglie Elisabetta, per la sua cara mamma e tutti i suoi cari; e forse anche per noi quel volto misterioso di Dio, che fino ad oggi abbiamo conosciuto e percepito, ne esce trasformato perché trasformata da questo vissuto è la nostra vita.
Lo ricorda Tagoree: «Quale fu la potenza che mi schiuse in questo vasto mistero come sboccia un fiore in una foresta a mezzanotte? Quando al mattino guardai la luce, subito sentii che non ero uno straniero in questo mondo, che l’inscrutabile senza nome e forma mi aveva preso tra le sue braccia sotto l’aspetto di mia madre. Così, nella morte, lo stesso sconosciuto m’apparirà come sempre a me noto».
Maria Santissima interceda e continui a pregare per quanti vivono questa sofferenza e possa donare un poco di pace e serenità ai nostri cuori segnati dal dolore.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: