Come 120 “babaciu” stanno ripopolando un borgo nel Cuneese

A San Pietro, in Val Grana, i fantocci di paglia e fieno (più numerosi dei residenti) riempiono una quotidianità che si è svuotata. Cardano la lana, cuciono, tirano il vino, abitano le vecchie case. E richiamano i turisti (e gli abitanti)
December 25, 2025
Come 120 “babaciu” stanno ripopolando un borgo nel Cuneese
I babaciu di San Pietro, frazione di Monterosso, nel cuneese
La prima sagoma che si riesce a indovinare nella bruma dicembrina, avvicinandosi a San Pietro, è quella di un pescatore intabarrato nella cerata che da un parapetto allunga la canna nel torrente, mentre dallo sfondo velato emerge il campanile della grande chiesa consacrata al santo eponimo. La temperatura sfiora lo zero, ma l’uomo è impassibile, immobile nella sua attesa paziente. Val Grana, Alpi cuneesi. San Pietro (Sen Pìe in occitano, la lingua della nazione virtuale che da qui si diffonde attraverso il Midi fino ai Pirenei) è una frazione di Monterosso, a quota 815: poco più di un chilometro, meno di un quarto d’ora risalendo a piedi lungo la via più diretta. Ma c’è anche il Sentiero del Sarvanòt, lungo e suggestivo, che si insinua per quattro chilometri in mezzo al bosco di bossi e castagni spolverati dalla prima neve, costeggiando la cappella di Santa Croce eretta alla fine del ’500 per impetrare la protezione dalla peste. Il Sarvanòt (piccolo selvatico) è uno spiritello sfuggente, figura liminale tra l’umano e il naturale, una specie di parente alpino del Munaciello napoletano: benefico verso chi rispetta il bosco, vendicativo con chi lo offende. Una serie di pannelli, lungo il percorso, racconta le sue gesta e altre leggende locali, storie di masche e di folletti silvani.
Oltre due fontane che la gente del posto ha identificato come quella dell’Amore e quella della Salute, la borgata di pietra comincia discretamente a affollarsi. Un uomo che esce di casa, con un lungo bastone e una pinta di vino sotto il braccio. Un altro, accanto alla ruota della trebbiatrice, impugna la manovella. Una donna che fa capolino dietro una finestra, altre donne e uomini sui balconi. Un uomo che scavalca una ringhiera, e non si capisce bene cosa stia facendo. Una devota assorta davanti all’edicola con la scena dell’Annunciazione. Una ragazza con cesta di vimini seduta su un gradino. Su un altro gradino una vecchia che spiega un giornale. Una donna che spazza le foglie secche, e davanti a lei un uomo con zaino di cuoio pronto a raccoglierle. Una mamma che spinge la carrozzella. Un monello su una slitta, un altro che gioca con un rudimentale dondolo, bambini e bambine su tricicli e piccole biciclette. Un gruppo di persone su una panca di legno. Una lunga tavolata di commensali che pranzano all’aperto, davanti all’osteria, e poco più avanti quattro uomini che giocano a carte – con questo freddo! Tutti indossano abiti antichi, come antichi sono i lunghi sci impugnati da un signore con pantaloni alla zuava: assi di frassino come quelli che Adolfo Kind, ingegnere dei Grigioni che aveva aperto una fabbrica di stoppini a Torino, si era fatto mandare dalla Norvegia nel 1896, per provarli con i suoi amici nel Valentino e sui lievi pendii del monte dei Capuccini, inaugurando la storia dello sci alpino in Italia. Nessuno che rabbrividisca, nessuno che si scomponga, tutti serenamente cristallizzati nella loro imperturbabile immobilità. Infatti non sono persone di carne e ossa: sono babaciu.
I babaciu
I babaciu
Il termine babaciu (invariabile al singolare e al plurale), nell’idioma occitano come anche in quello piemontese, vuol dire bambocci, fantocci: deriva dalla medesima radice onomatopeica che riproduce i primi suoni articolati degli infanti e sulla quale si forma la parola “bambino”. Nel senso traslato – il più ricorrente, peggiorativo – designa una persona un po’ tonta e inconcludente; ma nel nostro caso il senso è quello proprio: a San Pietro i babaciu sono pupazzi fatti di paglia e fieno con uno scheletro di legno, modellati in modo approssimativo a imitazione di figure umane a grandezza naturale e rivestiti di abiti ottocenteschi o di inizio ’900. L’effetto è insieme realistico e straniante. Visti da (poco) lontano, danno l’impressione di uomini e donne vicini e reali, sia pure rimasti fermi in una dimensione antica. Più da vicino, quelle facce che sono semplici palle un po’ oblunghe di paglia, senza occhi né nasi né bocche e con solo qualche pagliuzza che fuoriesce a caso, quelle mani che sono un intrico di fieno e rametti secchi emanano invece un senso di irrimediabile lontananza: un mondo perduto in cui chiunque può riconoscere qualcuno, può leggere espressioni e sentimenti, immaginare storie. Un’opera aperta in cui ritrovare un paese che non c’è più, ma che vuole ostinatamente conservare la sua memoria.
Computando anche le frazioni, il comune di Monterosso Grana aveva toccato nel 1901 il picco di 3692 abitanti, progressivamente calati negli anni successivi. Si dedicavano all’agricoltura, alla pastorizia, al taglio e alla lavorazione del legno, soprattutto all’estrazione dell’ardesia dalle numerose cave della zona (laouziere), in funzione dal ’400 e fino al 1983. Ma è stata la Seconda guerra mondiale a infrangere il già fragile equilibrio demografico e bloccare le normali attività economiche, con gli uomini chiamati al fronte e mai più tornati, oppure tornati per subito ripartire verso le città. Oggi i residenti sono poco più di 500. In particolare a San Pietro, che nel XVIII secolo aveva raggiunto il massimo sviluppo, con tre mulini ancora attivi dopo la fine della guerra, ne sono rimasti una quarantina, più altrettanti ospiti della casa di riposo messa su nel ’79 dal parroco don Romano Fiandra e autogestita con l’aiuto di personale qualificato e tanti volontari. In quegli anni Sen Pìe stava diventando un paese fantasma. E così, per ripopolarlo, ecco l’idea. La racconta Claudio Luciano, figlio di Vittorio e di Graziella Menardo che nel 2003 modellarono i primi babaciu per la festa patronale: «In un paesino francese un loro amico aveva visto, sui balconi e dietro le finestre, dei manichini di plastica in divisa napoleonica. Ma i miei genitori non volevano rievocare una battaglia, la loro intenzione era di raccontare la vita e la vitalità che un tempo erano qui». I processi di lunga durata contro la storia evenemenziale: forse senza saperlo, si ispiravano alla lezione delle Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre. «Mio padre aveva fabbricato le strutture di legno e paglia, mia madre le aveva rivestite con abiti e accessori d’epoca. All’inizio soltanto due o tre esemplari, poi si sono moltiplicati. La gente del posto metteva a disposizione le case, i vestiti, gli strumenti di lavoro e della vita quotidiana».
I babaciu
I babaciu
Adesso i babaciu sono circa 120, molto più dei residenti. Hanno invaso le abitazioni dove le donne-fantoccio cardano la lana, lavorano di cucito e attendono alle faccende domestiche, le cantine dove gli uomini “tirano” il vino (lo travasano dalla botte nei fiaschi), i laboratori dei fabbri e dei falegnami, le cucine dove le famiglie si riuniscono al tepore delle stufe, le stanze dove i vecchi si riscaldano accanto ai camini, le stalle dove gli animali mangiano il fieno, l’aula scolastica con la maestra alla cattedra, gli alunni imbacuccati chini sui banchi, la lavagna e le carte geografiche d’antan alle pareti, nell’anno di grazia 1882. Tutto come allora, perché questo è lou paìs senso témp, come ama qualificarsi, ma si potrebbe anche dire, parafrasando il titolo di uno dei migliori romanzi del ceco Bohumil Hrabal, “il paese dove il tempo si è fermato”. Il che però non è del tutto vero. Perché i babaciu si muovono, si spostano spesso e chissà se volentieri: per esempio in questi giorni in una stalla è stato allestito il presepe, mentre da un’altra stalla i fantocci sono stati sfrattati per lasciare spazio alla stagionatura del castelmagno, tornato “re dei formaggi” come era nell’800. E segnatamente sfilano all’aperto nella prima domenica d’agosto per partecipare alla festa del paese: li si può vedere impegnati nel tiro della fune, nel gioco delle bocce, nella raccolta della legna, arrampicati sull’albero della cuccagna – ogni anno un tema.
E parlano, anche: dal 2019 una decina di loro, segnalati da una coccarda – uomini e donne che hanno nomi come Simunèt, Giacu, Piere, Felìs, Veronico, Ciutìno (nella lingua d’oc molti femminili hanno la desinenza in -o) –, raccontano le loro storie, storie collettive in cui si raccolgono molte vite. Basta toccarli con il magico “bastone di Gino”, messo a disposizione dall’Ecomuseo Terra del castelmagno e così chiamato in ricordo di un ospite della casa di riposo che faceva da cicerone, e i babaciu iniziano a narrare, in occitano ma anche in piemontese, italiano, francese, inglese e tedesco, con la voce prestata loro dalla gente del posto e dai parenti emigrati altrove. E pure il paese in carne e ossa riprende a vivere. Per via dei turisti, certo, 3.600 da giugno a oggi, che sul sentiero del Sarvanòt, oltre al percorso didattico, possono trovare periodiche opere di land art e con le loro visite hanno portato alla riapertura dell’osteria. Ma anche per un lento, faticoso e tuttavia reale ritorno alla montagna. «C’è chi lavora nella casa di riposo, chi alla produzione del castelmagno, ci sono i pendolari che di giorno vanno a Cuneo, a Caraglio», dice Claudio Luciano, che di mestiere fa il messo comunale ed è una delle anime dell’Ecomuseo. «Abbiamo anche un po’ di bambini, l’asilo, la scuola elementare. La nostra chiesa è più grande di quella di Monterosso e adesso con i fondi del Pnrr sarà riqualificata la casa canonica. Il punto più basso è superato». Però, aggiunge, il futuro del paese non è più soltanto dei locali: «Qualcuno è venuto qui anche da Torino, poi ci sono gli extracomunitari e alcuni argentini, come la ragazza che gestisce l’osteria, arrivata qui con i figli e il compagno che parla già l’occitano». Anche da loro rinasce a nuova vita la comunità.
I babaciu
I babaciu

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