Esperimento: tu, la penna, un foglio. Da quanto tempo non scrivi una lettera?

È un esercizio dimenticato, un confronto con una dimensione che richiede tempo, silenzio e presenza. E che rimette in moto ricordi, emozioni e pensieri come in una sinfonia neurobiologicospirituale
December 25, 2025
Esperimento: tu, la penna, un foglio. Da quanto tempo non scrivi una lettera?
/Foto Icp
Da quanto tempo non scrivi una lettera? Intendo una lettera scritta a mano, con una penna e un foglio bianco. Non una nota veloce o un biglietto, non un messaggio vocale né una mail dettata mentre fai altro. Una lettera. Un oggetto fragile e testardo, che chiede tempo, silenzio, presenza. Una lettera… sì, sostanzialmente come quella che, forse, scrivevi a Gesù Bambino. Ricordi? Ti propongo un esperimento perché tu possa riprendere il meglio di te, più che un esercizio. Tre limiti soltanto. Il primo: stacca il cellulare. Il secondo: puoi usare un unico foglio, fronte e retro. Il terzo: un solo foglio di scorta, nel caso in cui ciò che hai scritto non vada proprio e neppure una brutta cancellatura possa rimediare. Uno solo. Come accadeva per secoli in Occidente, quando la carta era un bene raro e prezioso, quando produrla era un segreto custodito da mastri artigiani e ogni foglio aveva il peso concreto del lavoro umano. Non è un gioco nostalgico. È un atto di realtà.
Ora scegli a chi scrivere. Pensaci davvero. Un amico? La persona che ami? Tuo figlio, tua madre, tuo padre? Un parente lontano? Qualcuno a cui pensi spesso ma per cui rimandi sempre la telefonata? Chi rimarrebbe sorpreso nel ricevere una tua lettera? La vecchia maestra, la persona con cui hai rotto la relazione e che ancora ti fa male nominare. L’anonimo della porta accanto. Di nuovo a Gesù Bambino? Scegli. Ma sappi che scegliere uno significa escludere tutti gli altri. Non è una tragedia: è semplicemente la vita. Se non hai scartato l’idea perché “pensare stanca”, allora è già successo qualcosa. Hai messo in moto ricordi, emozioni, pensieri. Hai attraversato una ridda di microconflitti interiori. Forse hai già preso in mano la penna. Forse hai rosicchiato il tappino. Ti accorgi che non hai davanti la solita tastiera. Lì, se sbagli, premi un tasto e tutto torna disponibile. Puoi rimbalzare di errore in errore, cancellare, riscrivere, tornare all’inizio. Il foglio – si fa per dire – ridiventa bianco e immacolato, come per magia. Qui no. Qui ogni segno resta. Ogni parola lascia una traccia. Se non la vuoi, devi tenerla, trasformarla o cancellarla. E cancellare, diciamolo, è brutto. È una ferita visibile. Allora non resta che una cosa: pensare prima di scrivere. A meno che tu non sia molto pratico di lettere, non puoi permetterti il getto incontrollato. Devi pensare all’insieme, alla forma complessiva di ciò che vuoi comunicare. Ed è qui che comincia un’oscillazione continua, una vera altalena, tra ciò che senti e il modo in cui deve essere detto perché arrivi davvero all’altro.
Scrivere una lettera significa, per un attimo, uscire da te stesso. Significa abbandonare la tua urgenza per chiederti come ciò che scrivi verrà letto, compreso, forse frainteso. La scrittura vive da sola. Se ha bisogno di essere spiegata dopo, qualcosa non ha funzionato. A meno che tu non voglia, consapevolmente, seminare ambiguità, aprire domande, lasciare spazio all’interpretazione dell’altro. Anche questo è un gesto umano, raffinato, rischioso. Impostare una lettera è dunque un esercizio di memoria e di rinuncia. Devi trattenere tutto ciò che ti viene in mente e scegliere solo ciò che serve. Devi immaginare la reazione del lettore, calibrare il materiale emotivo e mentale che hai raccolto. Non è efficienza: è responsabilità.
Ora puoi occuparti dell’inizio. L’incipit. Gli inizi, nella vita come nella scrittura, sono rivelatori. Un incontro, un film, un romanzo, un editoriale: molto si gioca spesso lì. L’inizio attrae o respinge, invita a proseguire o induce all’abbandono. In una lettera puoi decidere se carezzare subito o graffiare, se stupire o rassicurare, se entrare in punta di piedi o spalancare la porta. Hai iniziato. La sfida tra te e il foglio bianco attraversa il corpo. Forse sei un po’ rigido sulla sedia. L’energia scende dal cervello lungo il braccio e arriva alla mano. Pollice e indice si oppongono: un gesto così banale da sembrare scontato, eppure un salto evolutivo straordinario, oltre le scimmie più vicine all’uomo, che ha aperto possibilità immense. Tra le dita scegli quale penna. Non è indifferente. Cambia tutto.
Tra mano, penna e carta nasce un conflitto silenzioso. La grafia tradisce la tua disposizione interiore: calma o frettolosa, leggera o premuta, armonica o disturbata. La vista registra dall’esterno ciò che fino a un attimo prima era solo dentro di te. E come ogni cosa vista, anche la tua scrittura ti suscita un’emozione. Può bloccarti o spingerti avanti. Può darti fastidio o compiacimento. Scrivendo, ti accorgi che ogni parola condiziona la successiva. Nulla è isolato. All’altalena con il destinatario si aggiunge un’altra oscillazione: quella tra ciò che hai già scritto e ciò che stai per scrivere. L’intenzione si modifica, la frase devia, l’idea si affina o si impoverisce. L’incertezza non è un difetto: è il segno che sei presente. E poi continui. Rigo dopo rigo. Il foglio si riempie, lentamente. Il tempo passa senza che tu te ne accorga. Stai usando memoria, immaginazione, linguaggio, emozione, corpo. Stai tenendo insieme passato e futuro in un presente densissimo. Nessun gesto è automatico. Nessun passaggio è gratuito.
Arrivi in fondo. Rileggi. Vedi le cancellature, le esitazioni, le imperfezioni. Forse correggi. Decidi se utilizzare il secondo foglio per riscriverla al meglio. Comunque sia quella lettera è tua. Non solo nel contenuto, ma nella forma. È nelle tue mani. Palpabile e irripetibile. Se la riscrivessi domani, sarebbe un’altra cosa. Ora fermati. Chiediti cosa hai attivato: quali parti di te sono state chiamate in causa, quali silenzi hai attraversato, quale attenzione hai esercitato. Hai usato la corteccia prefrontale, le aree linguistiche, il sistema limbico, la corteccia motoria e premotoria e il cervelletto, le aree visive e le aree somatosensoriali… ma soprattutto, concentrandoti così e per un tempo lungo, hai costretto quasi tutto il tuo cervello a cooperare. Hai diretto una sinfonia neurobiologicospirituale.
E adesso immagina di aver affidato quella lettera all’Intelligenza artificiale. Avresti risparmiato molto tempo. Avresti ridotto lo sforzo. Avresti ottenuto un testo corretto, forse elegante, certamente funzionale. Ma non ti saresti incontrato con l’altro, non saresti stato con lui o lei, dedicandogli tempo e te stesso nell’altalena divertente e faticosa della relazione. Avresti interagito per qualche minuto con un video parlante, il più potente specchio narcisistico che abbiamo inventato. Con un insieme di «bravo!», «geniale!», «grazie per il prezioso suggerimento!», le mille carezze che ti avrebbe dato sarebbero state tutte risposte all’antica implicita domanda fiabesca: «Specchio, specchio delle mie brame chi è lo scrittore più bravo del reame?». Senza pensarci, convinto di fare una cosa economica, utile e piacevole, gli avresti venduto l’anima e la lettera sarebbe volata in una cloud, insignificante prodotto comprato al mercato digitale. Una lettera ha sempre il sapore di quella lettera che, forse, scrivevi a Gesù Bambino, con quell’incanto che illumina il buio della notte. Una lettera è la possibilità per la tua umanità intera e nuda, vulnerabile e perciò fortissima. Nell’uso delle parole, dette o scritte, sta l’esercizio continuo della responsabilità. Non si può saltarlo sperando che questa nasca in altri esercizi.

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