L’Incarnazione è un dialogo di prossimità
Il Natale, nella sua essenza, non parla anzitutto di un Dio che finalmente si comunica, ma di una comunicazione che scopriamo già in atto

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Ogni anno il Natale ripropone questo annuncio, e ogni anno rischiamo di ascoltarlo come un evento remoto, accaduto una volta per tutte in un luogo lontano. Eppure, la formula giovannea non descrive solo un fatto storico: indica una struttura permanente della vicinanza. Il Verbo non attraversa lo spazio per raggiungerci dall’esterno, non getta un ponte tra il cielo e la terra: viene ad abitare, si fa interno a ciò che già siamo. La Parola, prima di essere pronunciata, accade — e accade precisamente là dove meno ce l’aspettiamo: nel mezzo, nello spazio che credevamo vuoto tra noi e l’altro.
È forse per questo che il Natale, nella sua essenza, non parla anzitutto di un Dio che finalmente si comunica, ma di una comunicazione che scopriamo già in atto, di una presenza che non doveva essere costruita perché era già operante. La domanda, allora, non riguarda il come del dialogo, ma il dove: dove accade realmente la parola che ci raggiunge? Dove si colloca quella voce che, nei momenti di autentica comprensione, sentiamo non appartenere interamente né a noi né all’altro?
È una domanda che attraversa la storia del pensiero occidentale, ma che trova una formulazione sorprendente — e sorprendentemente sobria — in un testo del Cinquecento spagnolo. Nel ventinovesimo capitolo del Cammino di perfezione, Teresa d’Avila si rivolge alle monache del suo monastero per insegnare loro a pregare senza sforzo e senza artificio. A un certo punto scrive: «Se parla, dovrà ricordarsi che l’interlocutore è presente in se stessa; se ascolta, dovrà ricordarsi di dover ascoltare una voce più vicina».
“Se parla”, “se ascolta”: non atti straordinari, ma le operazioni più quotidiane dell’esistenza. È proprio in esse che Teresa scorge qualcosa che abitualmente ci sfugge: l’interlocutore non va cercato altrove, non va costruito attraverso uno sforzo di interiorizzazione. È già presente, più vicino di qualunque contenuto mentale. Come il Verbo giovanneo, la “voce più vicina” di Teresa non colma una distanza: rivela che la distanza era illusoria.
Teresa parla a chiunque abbia fatto esperienza del fatto che la parola, prima di appartenere a qualcuno, accade. Chi ha vissuto un dialogo autentico sa che i momenti di reale comprensione non sono quelli in cui si riesce a “trasferire” il proprio pensiero nella mente dell’altro, ma quelli in cui qualcosa emerge che nessuno dei due aveva previsto, come se la conversazione attingesse a una sorgente che né l’uno né l’altro possedevano in partenza. E se la solitudine fosse già abitata? Forse il dialogo non comincia quando decidiamo di aprirci, ma quando smettiamo di difenderci da una vicinanza che era già lì.
Nell’esperienza quotidiana tendiamo a concepirci come territori distinti, dotati di un interno da custodire e di confini da sorvegliare. Questa rappresentazione introduce un errore silenzioso: ci porta a immaginare l’incontro come un ponte tra due interiorità chiuse, quasi che ciascuno dovesse prima presidiare il proprio perimetro e solo poi decidere se aprirlo. Nel vissuto, questa impostazione rende difficile riconoscere che molte delle esperienze che consideriamo più intime emergono da un fondo umano che non è mai interamente nostro.
Quando attraversiamo momenti di intensità o di chiarezza improvvisa, li viviamo come eventi profondamente personali. Nonostante ciò, queste esperienze non si lasciano mai possedere del tutto, come se portassero con sé un’origine che non coincide con la nostra biografia. C’è in esse qualcosa di impersonale — non nel senso della freddezza, ma nel senso di una comune possibilità di accadere che ci precede.
L’errore più diffuso nasce dal modo in cui intendiamo l’interiorità: trattandola come uno spazio recintato da proteggere. In questa prospettiva, parlare diventa un atto di trasferimento, come se dovessimo estrarre qualcosa dal nostro territorio per consegnarlo all’altro. Ma quando riconosciamo che ciò che chiamiamo interno non è un possesso esclusivo, bensì una modulazione singolare di un fondo comune, il dialogo cambia natura: non espone un interno, rende visibile una continuità che era già operante.
Nel vissuto, questa esperienza è riconoscibile quando, parlando con qualcuno, sentiamo che le parole non appartengono pienamente né a noi né all’altro, come se affiorassero da una zona intermedia che nessuno dei due controlla. Il continuum umano introduce un’asimmetria radicale: ciò che parla non coincide mai completamente con chi parla. Lo avvertiamo quando ciò che diciamo ci sorprende, o quando le parole dell’altro risuonano in noi non come informazioni nuove, ma come riconoscimenti inattesi.
Riconoscere il continuum umano non significa dissolvere i soggetti in un indistinto, ma abitare una dimensione in cui la differenza non è separazione assoluta. Molti ostacoli al dialogo nascono dalla paura di perdere se stessi, come se aprirsi al comune comportasse una dissoluzione. In realtà, ciò che viene messo in questione non è la singolarità, ma l’illusione della sua autosufficienza. Quando questa illusione cade, il dialogo può emergere come esperienza in cui ciò che ci attraversa prende parola — non per annullare gli io, ma per mostrarli come punti di passaggio di un umano che li precede e li eccede.
Esiste un momento, nel dialogo autentico, in cui qualcosa tace: non il discorso, ma la domanda su chi stia parlando. La parola smette di essere un possesso da esibire e diventa puro transito — attraversamento di una voce che non appartiene a nessuno perché non è appropriabile da nessuno. L’umano, allora, non è ciò che ciascuno custodisce nel proprio recinto, ma ciò che accade tra noi, prima ancora che esistano un io e un tu da separare. Il dialogo, nella sua forma più propria, non crea ponti tra isole: rivela che le isole sono sempre state penisole, prolungamenti di una terra comune che il mare dell’abitudine ci aveva fatto dimenticare.
In questa prospettiva, il compito più difficile non è costruire la comunicazione, ma smettere di ostacolarla. Giovanni, Teresa, e — quattro secoli dopo — una poetessa americana hanno detto, ciascuno a suo modo, la stessa cosa: la parola autentica non è quella che produciamo, ma quella che ci trova già in ascolto. Quando la pretesa di possesso si ritrae, ciò che resta non è il silenzio, ma una forma di colloquio già in atto. Come scrive Sylvia Plath: «Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio».
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