giovedì 22 febbraio 2018
La giustizia thailandese ha chiuso una vicenda imbarazzante riconoscendo la paternità del giovane giapponese che aveva allestito a Bangkok una vera «fabbrica dei bambini» con donne in schiavitù
Giapponese ottiene la custodia di 13 figli nati da madri in affitto
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Due giorni fa il Tribunale centrale per i minori di Bangkok ha accolto la richiesta di riconoscimento della paternità di Mitsutoki Shigeta per almeno 13 bambini da lui generati in Thailandia con il sistema della maternità surrogata. Occorrerà qualche tempo prima che il Ministero per lo Sviluppo sociale e la Sicurezza umana consegni i bambini al cittadino giapponese su richiesta dei giudici dopo un periodo utile a rendere meno traumatico il distacco dai piccoli dal centro pubblico specializzato che li ha accolti finora. Ma intanto i giudici hanno riconosciuto la condizione di padre naturale e verificato la mancanza di opposizione da parte delle donne che si erano prestate per le gravidanze, sottolineando come la decisione sia utile «per la sicurezza e le opportunità che i bambini potranno ricevere dal padre biologico che non ha trascorsi di comportamento negativo».

Quando nel 2014 la polizia entrò in un elegante appartamento di Bangkok trovandovi nove neonati affidati ad alcune donne locali sembrò aprirsi uno spiraglio sul traffico di bambini. Invece la scoperta doveva diventare una vicenda atipica, rimasta sospesa fino a martedì. Al centro un cittadino giapponese, Mitsutoki Shigeta, erede di una delle maggiori fortune nipponiche e a suo volta attivo investitore nel Sud-Est asiatico. Un uomo dalle tante iniziative, oggi 28enne, che aveva deciso – così ha sempre dichiarato – di garantirsi una discendenza la più ampia possibile attraverso la maternità surrogata. Pagando per questo, secondo i dati forniti dalla polizia, tra 9.300 e 12.500 dollari a ciascuna donna. Ancora oggi l’entità del suo impegno non è chiara, ma basti pensare che il giapponese ha visitato per 65 volte la Thailandia tra il 2012 e il 2014, "esportando" neonati in diverse occasioni. Confermata dal confronto del Dna la sua paternità per i nove bambini e per altri quattro, iniziò un estenuante braccio di ferro tra Shigeta, nel frattempo riparato all’estero, e le autorità thailandesi.

Dalla decisione finale dei giudici emergono dettagli di una vicenda sintomatica. Come l’"arruolamento" nel 2013 di nove donne che avrebbero dovuto portare avanti una gravidanza. Forse una premonizione dei possibili cambiamenti riguardo la tolleranza verso la maternità surrogata a favore di stranieri. Non a caso il giapponese riuscì appena in tempo a chiedere l’affido legale dei bambini prima del provvedimento di chiusura datato 30 giugno 2015 che consente ora di accedere alla maternità surrogata ai soli thailandesi, nell’ambito parentale e a certe condizioni. Da allora, l’uomo – che ha altri figli ottenuti con lo stesso sistema, in parte ospitati in Giappone e in parte in Cambogia – non solo ha seguito puntigliosamente attraverso i suoi legali le condizioni dei bambini ma ha predisposto un’adeguata sistemazione nel suo Paese, oltre ad avere avviato le pratiche per la cittadinanza.

Le autorità avrebbero potuto opporsi puntando sul fatto che Shigeta è single, ma hanno scelto di non farlo. Questo apre altri interrogativi su una tolleranza che alla fine è discriminatoria e sulle maglie larghe del sistema legale thailandese che, se ha chiuso le porte alla surrogata commerciale all’interno, poco ha fatto per impedire che strutture e personale al centro di un’industria ad alto profitto si trasferiscano all’estero. In Cambogia, Nepal e India, prima della "stretta" degli ultimi anni verso la surrogata in questi Paesi, e ora nel vicino Laos, dove il regime comunista consente la surrogata all’interno, purché con ovuli fecondati provenienti da fuori.

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