giovedì 27 gennaio 2022
Dietro i numeri record del 2021, in piena pandemia, la ritrovata credibilità dei medici. Parla Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale
Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale trapianti

Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale trapianti - Foto Centro nazionale trapianti

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«La ripresa dell’attività di trapianto nel 2021 si deve soprattutto alla riorganizzazione delle terapie intensive. E anche al credito che il personale sanitario ha riacquistato grazie al suo impegno a combattere la pandemia». Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale trapianti (Cnt), può vantare anche un ulteriore risultato: «Abbiamo realizzato trapianti da pazienti positivi al Covid, senza trasmettere il virus ». Un risultato che ha ricevuto il plauso della comunità scientifica internazionale.

Che cosa ha permesso all’Italia di recuperare i livelli di trapianti dell’epoca pre-Covid?

La pandemia ci ha fatto perdere il 10% di trapianti nel 2020. Ma nel 2021 soprattutto la riorganizzazione della rete e il grande lavoro del personale sanitario ci hanno consentito di riguadagnare il terreno perduto, pur nel permanere della situazione pandemica. È un segnale molto positivo, perché negli altri Paesi gli effetti della pandemia sui trapianti sono stati più pesanti. Nel 2021 non solo ci sono state Regioni, come la Toscana, con tassi di donazione a livello della Spagna (Paese leader a livello mondiale), e altre Regioni tornate su livelli elevati di donazione. Anche la disomogeneità tra Nord e Sud, che pure permane, ha mostrato di ridursi: tutte le Regioni del Sud hanno migliorato l’attività e diminuito i tassi di opposizione.

Le opposizioni sono calate anche per una maggiore fiducia nel Servizio sanitario?

Medici e infermieri – descritti anche come eroi all’inizio della pandemia – hanno acquisito maggior credito presso la cittadinanza. È migliorata la fiducia nel sistema: le opposizioni alla donazione degli organi sono tanto più frequenti, quanto minore è la fiducia nel sistema sanitario nel suo complesso. Se un familiare di una persona che muore ritiene che il proprio congiunto non sia stato curato in modo adeguato, ci sarà meno consenso alla donazione.

Nei mesi scorsi avete realizzato trapianti da persone positive al Covid. Che problemi ha posto e come li avete superati?

Questo è un protocollo di cui siamo orgogliosi perché l’Italia è stato il primo Paese al mondo a realizzarlo. Con il clima di paura che regna sul Covid, nessuno aveva pensato di utilizzare organi da donatori Covid positivi, pur sapendo che il virus alberga sostanzialmente nei polmoni. Dovendo bilanciare il rischio di pazienti critici, che senza un trapianto rischiavano di morire, e quello di un’ipotetica trasmissione del virus (ovviamente in un organo diverso dal polmone), abbiamo pensato a questa possibilità e abbiamo avuto ragione. In settembre 2021 abbiamo pubblicato i dati sui primi dieci trapianti di fegato sulla rivista American Journal of Transplantation. I trapianti sono pienamente riusciti e, anche oggi che siamo arrivati a 32, non abbiamo avuto neanche un caso di trasmissione del virus. Adesso abbiamo esteso il protocollo anche ai reni. Non solo abbiamo fatto da battistrada ad altri Paesi, ma la stessa rivista scientifica ha dedicato la copertina dell’ultimo numero del 2021 a questa esperienza, riconoscendone la paternità italiana.

Come mai il trapianto di cuore fa registrare numeri più bassi rispetto a 15-20 anni fa?

Principalmente per le caratteristiche dei donatori: oggi la media di età supera i 60 anni. Anche se l’età non è un criterio assoluto di inidoneità dell’organo, gli over70 e over80 sono donatori soprattutto di fegato e reni. Infatti conta la funzionalità dell’organo al momento della morte, e l’organo che più risente dell’età è proprio il cuore. Per fortuna parallelamente alla diminuzione di donatori giovani, in questi anni sono stati sviluppati sistemi meccanici di assistenza cardiaca, che in alcuni casi possono essere una soluzione-ponte per dilazionare il trapianto. Oggi ci sono pazienti con sistemi di assistenza al circolo che consentono una discreta qualità della vita anche per due-tre anni.

Negli Stati Uniti di recente sono stati effettuati alcuni xenotrapianti. Che futuro può avere questa tecnica? È sicura?

Sono sperimentazioni di grande interesse perché vanno a esplorare una possibilità che, se si realizzasse, potrebbe risolvere il problema più critico, vale a dire la disponibilità di organi. Ma siamo ancora abbastanza lontani da un’applicazione clinica degli xenotrapianti. Rispetto al passato, gli animali geneticamente modificati sono più compatibili con l’uomo, il trapianto con organi animali non determina il rigetto iper-acuto, che comporta la distruzione dell’organo trapiantato in pochi minuti. Ma il trapianto deve durare anni, c’è un problema di compatibilità a lungo termine che deve essere ancora ben valutato. Inoltre occorre essere sicuri che non vengano trasmessi virus animali dannosi per la specie umana. E la pandemia covid ci ha insegnato i pericoli dei virus che fanno il salto di specie. Quanto ai più recenti esperimenti, sono stati utilizzati organi di maiale: nel caso dei reni, gli organi sono stati osservati dopo il trapianto solo per pochi giorni, nel caso del cuore, il paziente trapiantato è ancora vivo, ma ha ancora un sistema di assistenza ventricolare, quindi non siamo ancora certi che il cuore trapiantato funzioni da solo. Oggi, per rispondere ai pazienti che sono in lista d’attesa, l’unica soluzione è l’organo da donazione umana.

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