mercoledì 18 giugno 2025
Per la genitorialità attraverso accordi commerciali tra coppie committenti e madri in affitto si altera anche il vocabolario cercando di nascondere la realtà. Un convegno tra giuristi alla Sapienza
Maternità “di intenzione”? Sulla vita non si gioca con le parole
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Il titolo del Convegno che ha avuto luogo il 5 giugno presso la Facoltà di Economia della Sapienza di Roma – “Maternità surrogata: un mercato da regolare?” – ha posto una domanda tutt’altro che retorica.

La pratica, secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza 221/2019), designa l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi (eterosessuali od omosessuali che siano), rinunciando preventivamente a reclamare diritti sul bambino che nascerà. Ma è possibile collocare sul mercato la gravidanza e l’obbligo di consegna di un bambino? È pensabile considerare l’attività gestazionale come un lavoro?

I dati parlano chiaro: non si tratta di casi isolati, ma di un affare imponente da miliardi di dollari, stimato in forte crescita, con domanda e offerta, intermediari ed esperti. Come porsi di fronte a questa realtà? Occorre regolare il fenomeno oppure proibirlo? L’ordinamento italiano, vent’anni or sono, ha già fatto la sua scelta (legge 40/2004): chiunque realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità è punito, a prescindere che vi siano o meno profitti. Di recente il Parlamento ha poi approvato ulteriori norme di contrasto alla surrogazione di maternità (legge 169/2024), estendendo la punibilità anche a quei cittadini italiani che, eludendo il divieto, abbiano realizzato all’estero le pratiche vietate. La stessa Corte costituzionale, da parte sua, ha affermato più volte che la maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane».

Se dunque la prospettiva etica e giuridica è quella della dignità umana e della solidarietà sociale è inaccettabile limitarsi a regolare tale mercato. Come messo in luce nella sua relazione da Silvia Niccolai, costituzionalista da sempre attenta alle questioni delle donne, ogni regolazione implica un’autorizzazione e spesso un ampliamento dell’offerta dei servizi, mentre è parte dello stesso marketing la finzione della maternità surrogata oblativa e gratuita, con rimborsi spese o premi finali che nascondono ingenti profitti per agenti e mediatori.

Allarmante è poi la proposta di legge in discussione in Belgio, specie per l’uso di un linguaggio che riferisce ai committenti (i cosiddetti “genitori d’intenzione”) l’esperienza della gravidanza e il vissuto dei nove mesi, al fine di dissimulare che tutto avviene, in realtà, nel corpo di un’altra donna. Se poi davvero si prova a considerare la maternità surrogata come un lavoro, come ha fatto Valentina Calderai nella prospettiva del Diritto privato comparato, non può che emergere la sovversione del concetto di lavoro così come prefigurato dalla Costituzione e dal quadro giuridico europeo e internazionale. Di fatto si tratta di asservire donne per un lavoro di riproduzione che soggiace a logiche di produzione. E per quanto le strategie comunicative di mercato cerchino di rivestire le pratiche di sembianze che ricordino il mondo della famiglia, della cura, della donazione, le stesse finiscono per rivelare la rimozione del soggetto giuridico costituito dalla “madre portatrice”, che non è più persona ma spazio, grembo, corpo ospitante.

Il convegno ha voluto affrontare anche la questione della tutela del bambino nato da surrogazione di maternità, trattata da Emanuele Bilotti soprattutto alla luce della sentenza n. 38162 del 2022 della Corte di Cassazione. Tale pronuncia ha infatti mostrato come sia proprio la tutela piena del nato – e non solo la tutela della donna – a esigere che si proceda con il ricorso all’adozione del minore anziché con il riconoscimento automatico del legame giuridico fra i genitori d’intenzione e il bambino. Solo una valutazione concreta e attenta alla peculiarità del caso è infatti idonea ad appurare se la coppia che ha ottenuto il bambino attraverso la pratica lo abbia poi continuativamente accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale, e se davvero sia nel supremo interesse del minore il riconoscimento giuridico dei legami di filiazione.

Quella dell’adozione in casi particolari è del resto una soluzione possibile anche secondo la Corte di Strasburgo, la quale, come ha ricordato Maria Grazia Rodomonte, ammette che gli Stati membri possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri o di provvedimenti giudiziari che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al genitore d’intenzione, sempre che tali Stati prevedano la concreta possibilità del riconoscimento giuridico di legami di vera e propria filiazione attraverso modalità che garantiscano effettività e celerità.

Il divieto penalmente sanzionato, d’altronde, come ha messo in luce Carmelo Leotta, tutela sia le donne sia i minori, i quali hanno diritto all’identità personale, alla conoscenza delle proprie origini e soprattutto a non essere oggetto di una pretesa. È sempre la tutela delle persone alla base della riforma che rende punibili i fatti anche se commessi dal cittadino all’estero, violando la dignità umana e minando nel profondo le relazioni umane.

Il convegno, come mostrato nelle conclusioni svolte da Luisa De Renzis, sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione e componente del Comitato nazionale per la Bioetica, ha mostrato come la maternità surrogata non possa considerarsi un mercato da regolare, perché non è accettabile che le persone e la stessa relazione umana primordiale – la maternità – siano sul mercato.
*Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale Università La Sapienza, componente del Comitato nazionale per la bioetica

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