mercoledì 16 giugno 2021
Accogliendo il ricorso dei legali di un tetraplegico 43enne, assistito dai radicali pro-eutanasia, i giudici hanno disposto la verifica dei requisiti dettati dalla Consulta. Forzandone la sentenza
Suicidio assistito, il tribunale va oltre la Corte Costituzionale
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Suscita perplessità l’ordinanza del tribunale di Ancona, che ha ordinato all’Azienda sanitaria della Regione Marche «di provvedere, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, ad accertare: a) se il reclamante sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; b) se lo stesso sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; c) se le modalità, la metodica e il farmaco (Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi) prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile».
Da queste parole traspare tutto il dramma del «reclamante», vale a dire un 43enne tetraplegico, che – richiamando la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale in tema di suicidio assistito – aveva chiesto all’Asl di essere aiutato a morire, e che di fronte al rifiuto si era rivolto al tribunale. In prima battuta, il giudice Valentina Rascioni aveva dato ragione all’Azienda sanitaria. Innanzi però al reclamo del paziente il collegio giudicante formato da Silvia Corinaldesi (presidente), Alessandro Di Tano e Valerio Guidarelli ha ritenuto di decidere come detto.
Sotto il profilo giuridico, però, l’impianto dell’ordinanza pare decisamente creativo: nella sostanza, infatti, il provvedimento applica una legge (quella sul suicidio assistito) che, seppure auspicata dalla Consulta, ancora non è stata messa nero su bianco dal Parlamento. Non solo. La pronuncia della Consulta, dopo aver ampiamente argomentato il tema, così si limita a disporre: «La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio». È dunque evidente come la sentenza non sia andata oltre l’istituzione di un perimetro di non punibilità nell’ambito di un articolo del Codice penale (quello appunto che, fino a quel momento, sanzionava sempre e comunque l’assistenza nel suicidio). Ad Ancona, invece, hanno trasformato in legge quello che – al momento – è un semplice appello della Corte al Parlamento.

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