giovedì 13 dicembre 2018
Lombardia e Umbria si aggiungono ad altre Regioni che permettono di abortire con la Ru486 senza ricovero, fuori dalle regole stabilite. L'aborto chimico in Italia ornai è al 15,7% del totale.
Pillola abortiva, day hospital o no? Ospedali in ordine sparso
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A nove anni ormai dall’ingresso nella lista dei farmaci in commercio nel nostro Paese, l’utilizzo della pillola abortiva avviene in modo del tutto disomogeneo sul territorio nazionale, non senza casi di profonda confusione, discrepanze tra le regioni e rischi per la salute delle donne.
La Ru486 è una preparazione farmacologica a base di mifepristone, un ormone steroideo in grado di bloccare l’azione dei recettori progestinici sulla mucosa e la muscolatura dell’utero e di favorire il distacco e l’eliminazione della mucosa uterina. L’aborto farmacologico è una procedura medica, distinta in più fasi, che si basa sull’assunzione di almeno due principi attivi diversi: il mifepristone e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. Il mifepristone, interessando i recettori del progesterone, necessari per il mantenimento della gravidanza, causa la cessazione della vitalità dell’embrione, mentre il secondo farmaco ne determina l’espulsione.
Inventata negli anni Ottanta, dopo molte controversie medico-legali la pillola abortiva è stata ammessa in Italia dal 10 dicembre 2009, con la pubblicazione del via libera all’immissione in commercio sulla Gazzetta ufficiale. Le disposizioni prevedono che l’aborto chimico non possa essere indotto oltre i primi 49 giorni di gravidanza e, sulla base dei pareri del Consiglio superiore di sanità, il Ministero della Salute ha emanato nel 2010 le Linee di indirizzo per rendere omogenee le modalità d’uso. Nel documento si ribadisce più volte la necessità di «compatibilità e di coerenza con i princìpi e i parametri di sicurezza posti dalla legge 194 del 1978», quella sull’aborto, mentre dal punto di vista clinico si afferma in modo perentorio che «i rischi connessi all’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti all’interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene in ambito ospedaliero», considerando anche «la non prevedibilità del momento in cui avviene l’aborto» e «il rispetto della legislazione vigente che prevede che l’aborto avvenga in àmbito ospedaliero». Questo anche perché l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) «ha ammesso il mifepristone soltanto a dispensazione ospedaliera, prevedendone l’assunzione in ospedale o in struttura sanitaria prevista dalla normativa e di fronte al medico, che deve accertarsi che la paziente ingoi la compressa».

Le "Linee di indirizzo" stracciate


La procedura farmacologica, quindi, non va considerata meno rischiosa ma valutata in tutti i suoi potenziali rischi per la salute della donna, visto che con l’assunzione del farmaco «si innesca un processo di non ritorno, perché si va incontro non solo all’interruzione della gravidanza, ma anche, dato e concesso che possa fallire il tentativo di aborto, a effetti teratogeni importanti e imprevedibili». Nel documento si richiedeva che «per le donne straniere si debba accertare l’avvenuta comprensione linguistica della procedura e dei sintomi che la donna stessa deve valutare autonomamente (intensità del dolore, sanguinamento, ecc.)» e si definiva «sconsigliabile» l’aborto farmacologico per le minorenni. Le Linee di indirizzo prevedono il pieno consenso informato della donna per un atto farmacologico che «si articola in un percorso temporale piuttosto lungo, quasi mai inferiore ai tre giorni» e con «implicazioni estremamente importanti dal punto di vista psicologico sulla donna che ha deciso di seguire questo difficile e doloroso percorso». Il ricovero ordinario è quindi doveroso ed essenziale per poter monitorare ogni fase ed è «fortemente sconsigliata la dimissione volontaria contro il parere dei medici prima del completamento di tutta la procedura perché in tal caso l’aborto potrebbe avvenire fuori dall’ospedale e comportare rischi anche seri per la salute della donna». Eppure, malgrado le chiare raccomandazioni delle Linee guida (elaborate da una commissione di esperti) e tre netti pareri contrari da parte del Consiglio superiore di sanità di composizione diversa (e in tre diverse legislature) rispetto all’ipotesi di aborto al di fuori delle strutture ospedaliere, la situazione in Italia si presenta ben diversa, con enormi differenze enormi tra regione e regione.

Una pratica in continuo aumento

L’uso dell’aborto farmacologico, come si legge nella relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della 194, è in aumento: «Nel 2016 il mifepristone con successiva somministrazione di prostaglandine è stato adoperato nel 15,7% dei casi, rispetto al 15,2% del 2015 e al 12,9% del 2014. Il ricorso all’aborto farmacologico varia molto fra le regioni». Con il nuovo anno anche in Lombardia e Umbria la pillola Ru486 potrà essere somministrata in regime di day hospital, come già avviene in Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Lazio e Liguria. In alcuni ospedali di altre regioni il vincolo viene spesso aggirato e si ricorre al cosiddetto "doppio ricovero": la donna assume il primo farmaco e poi firma le dimissioni volontarie, formalmente «contro il parere dei medici», come se fosse una sua scelta personale. Torna a casa e si ripresenta in ospedale dopo circa due giorni per assumere il secondo farmaco, seguendo esattamente la procedura che in realtà era «fortemente sconsigliata» dalle Linee guida ministeriali. Il vantaggio in termini di meri costi è evidente a tutti, perché vengono liberati posti letto in corsia, ma la donna viene di fatto lasciata completamente sola anche davanti a eventuali rischi, come emorragie, infezioni o aborti incompleti (con il distacco dell’embrione però non espulso). Una misura di salvaguardia per la salute della donna che viene lentamente accantonata, mentre c’è chi pensa addirittura al farmaco abortivo distribuito direttamente nei consultori familiari e nei poliambulatori, come il governo della Regione Lazio.

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