venerdì 7 agosto 2015
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È un tema estremamente delicato e complesso l’inumazione dei feti, che coinvolge norme nazionali e regolamenti comunali, ma anche sensibilità e sentimenti. A Torino nel cosiddetto "campo dei feti" al cimitero sulle lapidi non è più obbligatorio indicare il cognome delle madri, ma basta un semplice nome di fantasia. Una forma di delicatezza verso quelle donne che, dopo l’aborto, cercano di dimenticare quanto accaduto per poter andare avanti nella vita. È accaduto che alcune, dopo cinque anni dall’aborto, si siano viste recapitare l’avviso di estumulazione del feto. Una comunicazione burocratica che riapriva ferite mai totalmente chiuse e provocava nuovo dolore. Oggi anche i registri cimiteriali, nella relativa sezione, non sono consultabili dal pubblico proprio per garantire l’anonimato della donna. D’altra parte, la legge nazionale sul tema è piuttosto precisa, anche se poi lascia molto spazio ai Comuni nella concreta attuazione. Gli ospedali devono occuparsi dei feti fino a venti settimane dal concepimento, seguendo il protocollo di smaltimento dei rifiuti speciali. I genitori hanno comunque diritto a richiedere i resti entro ventiquattro ore dall’aborto per dar loro sepoltura: spesso avviene in caso di aborti spontanei, ma accade anche (e non così raramente) per chi ha abortito volontariamente. Per i feti più sviluppati – tra le venti e le ventotto settimane – risulta invece obbligatorio il conferimento ai cimiteri. Anche in questo caso i familiari possono richiedere i resti. Se però nessuno si fa avanti spetta ai Comuni stabilire come occuparsene. In molte città vengono direttamente inumati in fosse collettive, mentre a Torino, da sempre, si procede con la sepoltura individuale, completamente a carico del bilancio municipale, con tanto di lapide: «Sono contrario alle fosse comuni – spiega l’assessore ai Servizi cimiteriali, Stefano Lo Russo – perché appartengono a un’altra epoca. Con l’eliminazione del cognome dalla lapide garantiamo ora l’anonimato della donna ma manteniamo il suo diritto a portare successivamente un fiore su quella tomba. Il tempo di elaborazione di un lutto è completamente soggettivo e di certo non spetta al Comune definirlo». In effetti, un terzo delle donne che inizialmente non volevano più saperne nulla torna a chiedere informazioni sul luogo di sepoltura del proprio figlio. Un dato toccante e che fa riflettere ma che è ben noto a chi si occupa quotidianamente di questi temi. «Siamo colpiti nell’apprendere questa notizia – commenta Paolo Monticelli, responsabile delle convenzioni ospedaliere per l’associazione Difendere la vita con Maria, che da anni opera per incoraggiare i Comuni a creare spazi dedicati nei cimiteri, che qualcuno ha definito "giardini degli angeli" –. Riteniamo giusto tutelare la riservatezza delle donne, come abbiamo sempre fatto». «Il concepito è un soggetto di diritti – aggiunge il presidente dell’associazione, don Maurizio Gagliardini – e seppellire i bambini non nati è un atto di umanità». Alla base non c’è alcun giudizio ma il riconoscimento dell’inestimabile valore della vita umana: «Proponiamo sempre alle donne l’accompagnamento psicologico per l’elaborazione del lutto – spiega Gagliardini –, un passaggio difficile ma necessario. Le riconcilia con se stesse e con la vita, mettendole in grado di iniziare un percorso di speranza».

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