giovedì 9 febbraio 2023
Una diagnosi infausta, la solitudine in ospedale, le domande sulla vita, gli altri, il dolore: cosa si attende, cosa si riceve. E cosa occorre a chi attraversa il tempo della prova. Anche nella fede
La mia esperienza della malattia. E il bisogno di parole che "curano"
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La Giornata mondiale del malato ogni anno accende i riflettori almeno per un giorno - l'11 febbraio, festa della Vergine di Lourdes - sui malati. A me è una giornata particolarmente cara. La considero un po’ anche mia, che dall’esperienza della malattia importante sono passata più volte. Ed è un giorno in cui si affollano ricordi, volti, dolori, situazioni... Quest’anno la Giornata è dedicata alla cura come esercizio di compassione. Che il malato abbia bisogno di cura è fin troppo evidente; meno evidente e più importante è il suo bisogno di compassione, intesa come disponibilità dell’altro a dividere con lui il dolore, a patirlo con lui: con-passione, appunto. Si manifesta nella vicinanza, in «quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare».

La malattia è quasi inevitabilmente esperienza di solitudine. Per quante persone il malato abbia intorno, è lui a dover sopportare il dolore, a doversi misurare con l’impotenza, l’incertezza del suo futuro, le trasformazioni che avvengono nel suo corpo. Se ci penso, sento ancora dentro di me la solitudine di certe giornate, quella della camera sterile – la «scatoletta di vetro », come mi ero abituata a chiamarla per sdrammatizzare con l’ironia quello che mi sembrava insopportabile – alla quale potevano accedere per breve tempo pochissime persone, che restavano comunque sempre al di là di un vetro che mi separava da loro. Erano il mio ponte con la vita, attraverso cui, nell’affetto, i miei familiari e i miei amici cercavano di tenere desta in me la voglia di vivere. Ricordo la solitudine dei giorni in cui mi è stata comunicata una sentenza severa e mi sono sentita, smarrita, davanti a un’incertezza radicale. Ma la solitudine è stata anche quella generata da parole maldestre, che avrebbero voluto consolarmi e invece finivano con lo scavare nel dolore. Ricordo le parole di un amico al quale avevo comunicato la notizia della mia malattia che avevo appena scoperto. Mi disse: «Il Signore ti vuole proprio bene, se ti manda una croce così grande!». Non ho saputo rispondergli nulla: in quel momento avrei voluto dirgli che era come se mi avesse tolto anche Dio, perché il Dio che per amore manda un tumore ai suoi figli non era il Dio in cui credevo, in cui ero disposta a credere.

La compassione ha bisogno di vigilanza; non bastano parole, pur dettate dall’affetto, per infondere coraggio e consolazione. La vicinanza vera, quella che accetta di spartire il dolore del fratello e della sorella, si nutre di silenzio, in quella condizione in cui si avverte dentro di sé l’impotenza dell’altro e lo scandalo del suo dolore. È l’atteggiamento di chi sta in una fragilità che sta al di là della malattia e che pone realmente tutti sullo stesso piano. Se penso ai giorni della mia malattia, vedo affacciarsi tanti volti: quelli dei medici, degli infermieri, di tanto personale. So quanto sia decisivo sentirsi alleati, sperimentare quella fiducia che porta ad affidarsi e che non è per niente scontata, che è frutto di azioni e di atteggiamenti quasi impercettibili e che è una componente decisiva della cura. So che sentirsi solo il proprio corpo malato è umiliante e non aiuta a resistere al male. E poi vedo affacciarsi il volto dei miei familiari e di tanti amici. Non si pensa a sufficienza che quando una persona si ammala è l’intera famiglia che si ammala, che vede turbati i propri ritmi e i propri equilibri, messi a rischio i propri affetti. Mi hanno fatto sentire che dovevo lottare anche per loro, perché la mia sofferenza non gravasse anche su di loro. In fondo, paradossalmente, una responsabilità che influiva e rendeva più acuta la mia solitudine.

Papa Francesco ricorda nel suo messaggio che la Giornata del 2023 cade nel pieno di un percorso sinodale. Camminare insieme anche con i malati, secondo lo stile evangelico che mette al centro i deboli, i poveri, gli ultimi, costringe tutti a modificare il proprio passo e a ricordarsi della propria fragilità. Il malato, nella sua condizione di debolezza, di impotenza e di dolore, è immagine della Croce. Accoglierne la vita fragile significa ricordarsi che occorre rimettere al centro della vita della Chiesa la Pasqua di Cristo, consentirle nella sua logica paradossale di verificare il proprio stile, la propria cultura, le proprie scelte. La malattia «fa parte della nostra esperienza umana», scrive papa Francesco nel messaggio, e viverla con dignità, da credenti, significa accoglierne il non senso, il suo lasciarci senza parole e senza risposte. Per viverla da credenti occorre immergersi nel mistero di un Dio che con il suo dolore ha detto che anch’egli non ha risposte al dolore umano; l’unica possibile risposta è caricarselo sulle spalle, cioè condividerlo con noi. Mettere al centro i malati, insieme a tutti i poveri, sarà veramente un modo decisivo per consentire al Sinodo di rinnovare la vita della Chiesa. © RIPRODUZIONE RISER

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