giovedì 20 settembre 2012
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Alzheimer: è probabile che domani sentiate ripetere spesso questa parola, perché il 21 settembre, in tutto il mondo, si celebra la giornata dedicata alla malattia. Di questo si tratta: il morbo di Alzhaimer – è il cognome dello psichiatra tedesco (di nome si chiamava Alois) che per primo descrisse il disturbo nel 1906 – è un processo degenerativo che attacca le cellule cerebrali. Chi ne soffre poco a poco diventa incapace di vivere una vita normale, si dimentica come si fa a compiere anche i gesti più semplici e quotidiani come lavarsi, rifare il letto, mangiare, andare a comperare il pane. Siccome la malattia colpisce le persone anziane, sono tanti i bambini che hanno un nonno o una nonna che ne soffrono: in Italia i malati sono quasi cinquecentomila, circa trentacinque milioni in tutto il mondo. Una patologia che sconvolge la vita del malato ma anche quella di chi gli sta al fianco: il primo sintomo – cioè il primo segnale dell’Alzheimer che avanza – è la perdita della memoria. Non significa dimenticare qualche parola ma addirittura non ricordare intere azioni, magari proprio quelle appena compiute. Finire di pranzare – per esempio – e dieci minuti dopo sedersi a tavola chiedendo: «Cosa si mangia di buono oggi?». Al contrario, si ritrovano ricordi di un passato ormai lontano o lontanissimo: il nonno, una mattina, si veste a puntino convinto di dover uscire per andare al lavoro anche se ormai è in pensione da anni. Oppure capita che arrivato nella casa delle vacanze dove ha trascorso l’estate per metà della sua vita se ne esca con una frase tipo: «Ma che bel posto!», come se non l’avesse mai vista prima... La mente dei malati torna a episodi dell’infanzia o della gioventù: la nonna vi guarda e pensa che voi siate l’amato fratello con cui giocava quando era piccola oppure vi chiama come il primo fidanzato che non vede da decenni. Ma proprio per questo, perché i malati di Alzheimer vivono spesso nel passato, ritornano un po’ bambini: e i nipotini diventano una risorsa, una compagnia benefica. È difficile stare vicino ai malati, rendersi conto che non si riconosce più una persona che si conosceva benissimo. È doloroso. Ma rinunciare alla compagnia del nonno o della nonna lo sarebbe di meno?
«È un errore nascondere le malattie»
Qualcuno sostiene che ai bambini sarebbe meglio evitare di vedere il nonno o la nonna malati di Alzheimer: troppa sofferenza, meglio risparmiarli. È davvero così? «Dipende dall’età, dal fatto che si sia conosciuto il nonno anche prima della malattia e si abbia consapevolezza del suo cambiamento. I bambini molto piccoli faranno più fatica a capire e a confrontarsi con la trasformazione. Anche se spesso i più piccoli hanno un buon rapporto con l’anziano malato di Alzheimer – spiega Katia Stoico, psicologa della Fondazione Manuli, la Onlus che dal 1992 organizza servizi rivolti ai malati di Alzheimer e alle loro famiglie – perché presenta tratti simili a quelli dell’infanzia. Per esempio, diventa più spontaneo, gli piace divertirsi e preferisce le cose semplici». Ma può anche capitare che il nonno diventi insofferente, proprio in virtù della confusione che gli invade la testa: «I bambini sono grandi portatori di confusione e non è raro – prosegue la psicologa – che la loro presenza stanchi l’anziano sano, figurarsi quello patologico». Difficile spiegare ai più piccoli quel che succede: «Eppure è giusto. Ci sono malattie che portano via la memoria alle persone, a volte ci si ammala pur non dovendo stare a letto o in ospedale», spiega Stoico. Anche questo fa parte del ciclo della vita, la malattia e la disabilità esistono: «Quando mi chiedono se è meglio portare i nipoti oppure no a trovare i nonni malati io sostengono sempre che è necessario. Un conto è se l’anziano non sopporta la loro presenza – chiarisce l’esperta – un altro è che si voglia proteggere il bambino a tutti i costi. È un peccato perdere la possibilità di farli stare insieme finché è possibile. Il piccolo vedrà il nonno e se ne ricorderà, pur con le fragilità che si porta appresso. E la presenza dei bambini è molto utile all’altro nonno, quello non malato, perché è una presenza rigenerante, un conforto nella tristezza quotidiana».
Ci si trova al caffè a tempo di musica
Sono luoghi di divertimento e di incontro, dove le famiglie e i malati recuperano qualche ora di spensieratezza: ecco gli Alzheimer cafè, realtà diffusa in tutta Italia. «Si tratta di spazi ricreativi – spiega Patrizia Spadin, presidente dell’Aima, l’Associazione italiana malati di Alzheimer – dove genitori, figli e nipoti sono invitati a trascorrere un po’ di tempo insieme. L’idea del caffè è proprio quella di un posto dove recuperare e coltivare relazioni e vita sociale». In Italia ormai ne esistono a centinaia, sparsi da Nord a Sud, ognuno con le proprie caratteristiche, ognuno con programmi e attività adatti alla platea dei suoi ospiti. L’Aima è stata la prima ad adottare il progetto, di matrice olandese: a idearlo, sul finire degli anni Novanta, lo psicogeriatra olandese Bere Miesen con l’obiettivo di informare sugli aspetti medici e psicologici della demenza, sottolineare l’importanza di parlare apertamente dei propri problemi e, infine, prevenire l’isolamento dei malati e dei loro familiari. Dopo l’Olanda, altri Paesi quali Gran Bretagna, Germania, Belgio, Grecia e Austria hanno via via istituito questa pratica fino ad arrivare, intorno al 2005, anche nel nostro Paese, cominciando dal Nord Italia: al caffè si può parlare, in un clima di convivialità e aggregazione, si possono incontrare operatori qualificati con cui affrontare dubbi e perplessità. E poi si svolgono attività manuali, giochi di memoria: le abilità dei pazienti vengono coltivate attraverso l’ascolto di musica, la visione di film, la lettura. La gioia ritorna al ritmo dei ballabili: «Sembra incredibile ma quando mettiamo la musica – spiega Angela Inglese, volontaria in uno degli Alzheimer cafè di Milano – tutti cominciano ad alzarsi, a ballare, a prendersi per mano. È un momento unico, perché la malattia per un attimo sparisce dai volti dei malati e da quelli dei loro familiari».
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