giovedì 10 febbraio 2022
Intervista alla presidente dell'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma: 30 anni della Giornata mondiale del Malato, cos'è cambiato, cosa deve accadere, cosa dobbiamo ancora capire
Mariella Enoc in corsia con un piccolo ricoverato

Mariella Enoc in corsia con un piccolo ricoverato

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La differenza sta tutta qui: «Non dobbiamo essere benefattori ma farci compagni di strada del malato». Scienza, cura, relazione, compagnia: sono parole che tornano spesso nei ragionamenti della presidente dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, Mariella Enoc. Concetti che nella cura del paziente si affiancano ad ascolto e silenzio, perché «non serve riempire di parole il dolore» di genitori che hanno perso un figlio. Ecco che così anche la Giornata del malato, che si celebra domani 11 febbraio, «deve servire per formare le coscienze sul significato della persona ammalata», rimettendo al centro «l’umanizzazione delle cure», e per capire «cosa possiamo fare oggi anche come cristiani».

Nella sua lunga esperienza di amministratore di strutture sanitarie, ha visto l’evoluzione dell’approccio medico al paziente. Come è cambiata in questi ultimi trent’anni la cura del malato?
In pochi decenni la scienza ha compiuto progressi straordinari. Una parola come leucemia, pronunciata anni fa, è diversa dal dirla oggi con l’85% di guarigioni. Ma un valore aggiunto che c’era all’inizio, e che va riscoperto, è che il medico di famiglia era veramente la persona più vicina al malato. Dobbiamo ritornare a una medicina di prossimità; ma non lo si può fare solo con una legge o facendo nascere nuove strutture. Occorre una mentalità nuova, bisogna partire dal basso, dalla comunità, far rinascere nella coscienza delle persone la fiducia in chi è vicino. Oggi possiamo davvero guardare a nuovi orizzonti della medicina e al centro deve però esserci la persona, non il paziente, non il numero del bilancio, non il caso clinico.

La pandemia può essere, secondo lei, un acceleratore di questo processo?
Durante la pandemia abbiamo avvertito in modo drammatico la debolezza della medicina di prossimità, malgrado il sacrificio eroico di molti medici. Il modello sanitario ospedale-centrico non ha retto allo sforzo e non poteva reggere. Lo sapevamo del resto anche prima. Ma non sono certa che lo abbiamo compreso davvero. Occorrerà capire, infatti, come verrà affrontata la questione della medicina del territorio. La mia preoccupazione è che non si creino solamente belle strutture. Le strutture da sole non bastano. Serve una continuità vera tra ospedale e territorio, che porti le persone a "fidarsi" del medico di prossimità e metta quest’ultimo in condizione di lavorare all’interno di un sistema in grado di offrire ai suoi pazienti il supporto necessario. Penso concretamente ad ambulatori – alcuni già esistono – dove quattro o cinque medici lavorano insieme, anche al sabato e alla domenica, mantenendo un legame per formazione e competenza con grandi centri di riferimento. Inoltre, servirà tornare a dedicare tempo all’ascolto del paziente e a guardare il malato negli occhi, cercando di interpretare i suoi bisogni. Non si può fare una visita o una ecografia in un tot di minuti stabiliti; l’importante infatti è che il paziente esca convinto e tranquillo. Insomma il futuro della medicina e dell’organizzazione medica è nell’approccio alla persona, nella presa in carico totale del malato. Però è un fatto prima di tutto culturale, noi dovremmo essere capaci di parlare di queste cose nelle comunità, nei convegni dove spesso si fa diagnosi sociologica e non terapia. Anche la Giornata del malato è nata per far prendere coscienza alle persone del significato della persona ammalata. La Giornata deve essere usata al meglio per formare la coscienza delle persone, anche di chi si occupa di pastorale.

Anche l’accompagnamento spirituale però in questi anni è cambiato…
Certo, ma c’è ancora tanto da fare, perché spesso non si interpreta bene l’accompagnamento spirituale, che significa anche grande rispetto della persona. Di fronte alla sofferenza e alla morte ho imparato da papa Francesco che l’unica parola è il silenzio e far sentire di esserci. I genitori molte volte lo apprezzano talmente tanto che poi tornano a fare i volontari nell’ospedale dove sono morti i propri figli. Perciò non invadiamo di parole il dolore, il dolore ha bisogno di silenzio e di interiorizzazione, se poi il genitore piange e si sfoga, non dobbiamo per forza rispondere alle sue parole con altrettante parole, ma accoglierlo.

Lei ha ricordato genitori che poi tornano in ospedale come volontari. Come è cambiato il ruolo del volontariato e delle associazioni presenti in corsia?
Il volontariato è cresciuto molto ed è diventato fondamentale per la presa in carico della famiglia, non solo in ospedale, ma soprattutto sul territorio. In ospedale, a me piace dire che il bravo volontario è quello che "costringe" la mamma del bambino ricoverato ad andare dal parrucchiere, perché sono le mamme, sono i genitori ad aver spesso più bisogno di sostegno. E dico anche che occorre andare dagli anziani a far loro compagnia, anche se capisco sia più gratificante stare con i bambini. Ma il volontario, non va dimenticato, è colui che dona il suo tempo e il suo cuore, non colui che gratifica se stesso.

Un’ultima domanda. Quali sono le prospettive future nell’accompagnamento dei malati?
Credo che le parole chiave siano scienza, guarigione, cura, relazione, compagnia. A questo tengo molto: mai distinguerci dall’altro, ma stare con l’altro; mai considerarci benefattori, ma compagni di strada. Anche quando come Bambino Gesù siamo andati in Centrafrica, a Bangui, lo abbiamo fatto non con l’idea di fare qualche cosa per loro, ma per crescere insieme a loro.

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