giovedì 12 giugno 2025
A 20 anni dal referendum che, fallendo, sancì la conferma popolare delle regole approvate l'anno prima dal Parlamento: quali questioni ha aperto da allora l'affermarsi della genitorialità in provetta?
Manifesti per modificare la legge 40 nei referendum del 12 e 13 giugno 2005, poi falliti

Manifesti per modificare la legge 40 nei referendum del 12 e 13 giugno 2005, poi falliti - -

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Molta acqua è passata sotto i ponti da quando la legge 40/2004 sulle procedure di applicazione della Pma (procreazione medicalmente assistita) accese un dibattito politico e sociale culminato nel referendum abrogativo con i risultati che tutti conosciamo, legati all’astensione del mondo cattolico e risultato di un potente risveglio della coscienza etico sociale degli italiani.

Tale risultato fu il frutto della convergenza politica di una maggioranza trasversale che condivise alcuni assunti fondamentali: il primo secondo il quale non si poteva lasciare privo di governo legislativo un campo nel quale ogni novità scientifica automaticamente rischiava di diventare occasione per “aggiungere” un modo nuovo per generare un bambino, senza alcuna valutazione dell’impalcatura culturale e morale.

Il secondo, per il quale era indispensabile provvedere a una omogeneizzazione su standard minimi accettabili e condivisi per i Centri ove si realizzavano le procedure della Pma; il terzo, qui elencato per ultimo ma in realtà centrale nella riflessione bio-politica, per cui era da rimarcare la tutela di tutti i soggetti coinvolti in queste procedure, e tra questi anche il concepito. Sottoposta negli anni alla scure delle varie sentenze della magistratura e dei tentativi, da parte di alcune frange politiche, di annullarne l’impianto di fondo, la legge 40 continua a mostrare la sua solidità, se è vero che – ad esempio – negli ultimi dieci anni i centri clinici preposti hanno visto un aumento significativo nell’attività e nel numero delle coppie trattate, con un certo miglioramento del tasso di successo.

Detto questo, è il caso di indagare più a fondo, all’interno dello scenario sociale italiano, sul paradosso presente oggi, dopo vent’anni: da una parte sembrano aumentare le decisioni delle coppie sterili di intraprendere il cammino della procedura medica, spesso sofferto e talvolta destinato al fallimento, pur di vedere realizzato il sogno di tenere fra le braccia un neonato. Dall’altro però si assiste al continuo e inquietante fenomeno della crescita zero – la denatalità, appunto – che negli ultimi anni ha assunto percentuali impressionanti. Oltre le numerose indagini socioeconomiche e gli studi antropologici, spesso inclini a delineare quadri sconfortanti, occorre individuare, nel complesso dei fenomeni in gioco, almeno un nodo culturale, in grado di immaginare lenti ma necessari passi verso un cambio di prospettiva. Fare diagnosi, insomma, per individuare qualche forma di terapia. Si può al riguardo pensare a una passione triste che ci attraversa e che prende il nome di “crisi del desiderio”.

Desiderare è l’autentica spinta del vivere in modo giusto, quando questo sentire sia mosso non dalla misura breve del “tutto e subito” ma dall’immaginazione di un percorso lento di maturazione personale, che tutti dovremmo sostenere e proteggere. Riflettiamo sul vissuto sofferto di una coppia sterile che “desidera” un figlio e che la legge 40 tutela giuridicamente: il difficile percorso medico sostenuto dalla futura madre, spinta al raggiungimento del suo obiettivo, è certamente un bene in sé, ma talvolta – a causa del clima sociale segnato da obiettivi autocentrati – può essere il frutto di un bisogno di possesso di un bene, che altrimenti presuppone la maturazione responsabile verso il nuovo nato, altro rispetto al desiderio, e che è un altro che sfugge alle prese della soggettività della madre e del padre.

Non basta partorire bambini se non li si genera con impegni di vita che sappiano riattivare quella solidarietà generazionale che investe i genitori, i nonni, i fratelli, i cugini, e tutti gli altri attori sociali attraverso un forte investimento personale. Discorso analogo, anche se di segno opposto, è il rifiuto della genitorialità in nome di una autonomia della vita di coppia e di una polarizzazione del desiderio, calcolato ai fini personali e sganciato dalla responsabilità sociale. Manca in questo caso la molla del desiderio che superando i limiti della propria prospettiva, è pronta all’apertura verso il non più cercato, che con la sua imprevedibilità scardina le sicurezze e si impone come assoluta novità.

Tornare a desiderare non è soltanto una disciplina personale: è una virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo spesso appagata e appiattita. Fare o non fare un bambino non è un diritto della donna o una esclusiva scelta privata della coppia, ma è un evento che obbedisce a regole proprie: il nuovo altro che viene al mondo “esige” di essere accolto, curato e rispettato, pretende una nuova responsabilità relazionale, educativa e affettiva, che coinvolge l’intero corpo sociale. Fermare la corsa irresponsabile verso la morte del desiderio è compito di tutti: educatori, comunicatori, politici e tutte le persone che abbiano uno sguardo attento, quello che produce un gesto di responsabilità e di fiducia verso il futuro della famiglia umana.

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