martedì 2 aprile 2024
La grandezza dello scienziato, l’amore sconfinato per i suoi fragili pazienti, la fermezza nel difenderne la dignità, la fede comunicativa. A 30 anni dalla morte, il 3 aprile 1994, una figura attuale
Jérôme Lejeune insieme a un suo piccolo paziente con sindrome di Down

Jérôme Lejeune insieme a un suo piccolo paziente con sindrome di Down

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Sono giusto trent’anni che Jérôme Lejeune è morto, e la memoria di lui non si smorza, ma anzi si fa più intensa e più accesa. Lejeune è stato uno scienziato di rango, un genetista che ha scrutato i misteriosi dinamismi delle cellule umane ai livelli fondamentali, là dove la vita custodisce il suo progetto, la sua essenza, il suo prodigio. Mezzo secolo prima che la scienza moderna riuscisse a mappare il genoma umano con l’aiuto potente dei supercomputer moderni, Lejeune aveva contribuito a soli trent’anni, insieme a Raymond Turpin e Marthe Gautier, alla scoperta della causa genetica della sindrome di Down, identificandola nella trisomia 21, una anomalia del cromosoma 21 presente in tre copie invece che due. Se si cerca oggi su internet una foto di Jerome Lejeune è facile trovarlo con il volto dall’espressione intensa e serena accanto al volto di un bambino Down che gli sorride. Un’immagine di vita innamorata della vita.

Penso che ognuno di noi conosca o abbia incontrato qualche bambino Down; uno su mille nasce con questa anomalia, che è causa di fragilità e di disturbi organici. Ma sulla personalità e sulla vita interiore di chi vive quella condizione sono diffusi luoghi comuni, pregiudizi, convinzioni stereotipe lontane dal vero. In realtà c’è uno sviluppo intellettivo solamente più lento, che esige più tempo e più cura, ma non preclude traguardi scolastici e anche lavorativi. Possono acquistare fiducia nelle proprie abilità, acquisire autonomia, intessere relazioni, avere desideri, impulsi, fantasie come i coetanei; manifestano in modo esplicito le emozioni e l’affettività; possono accettare il proprio limite senza per questo esser ritenuti “diversi”, poiché ogni essere umano ha la sua singolarità, e riconoscerla è fattore di inclusione.

In questo, Lejeune è una figura esemplare di sollecitudine e di tenerezza. Proprio a ridosso di quegli anni cominciava a spirare una ventata di rifiuto verso la nascita di persone disabili. Se la diagnosi prenatale segnalava la presenza della trisomia 21 c’era chi suggeriva l’aborto come soluzione preferibile rispetto alla prospettiva d’una vita affaticata e ferita dalla fragilità e dalle menomazioni, e al coinvolgimento di sofferenza dei genitori e dei familiari. Una simile deriva ha poi causato negli anni una tale quantità di aborti al punto che in alcuni Paesi i bimbi con diagnosi Down che vedono la luce sono una esigua minoranza rispetto ai loro fratelli sacrificati prima di nascere. Lejeune no, Lejeune si schierò sempre contro l’aborto; ne denunciò da scienziato l’errore o la menzogna di chi riteneva quel piccolo essere vivo nel grembo materno come “non umano”; e spiegava che dare la morte era per la società stessa perdere la propria anima, uccidere la speranza.

«A man is a man» soleva ripetere: con la semplicità della scienza, con gli occhi aperti sulla verità della vita, con il cuore appassionato per quel mistero grande che è ogni nuovo essere umano, ogni figlio che viene al mondo, che giunge fra noi. Una toccante testimonianza dei genitori che da tutto il mondo venivano a Parigi a consultarlo come medico per il loro figlio Down, è che lo visitava «come se il loro bambino fosse un principe».

Non gli sfuggivano in problemi della maternità “difficile”; per questo aveva fondato in Francia la prima “Associazione per le gestanti in difficoltà”: donando così il suo aiuto al superamento delle difficoltà; convinto che «non si dà sollievo al dolore di un essere umano uccidendone un altro». Questa sua fedeltà in favore della vita gli costò cara: molti colleghi lo abbandonarono, ma egli non rinunciò mai alla sua missione. Vi giocò la sua intera vita di scienziato, di medico, di laico, di uomo.

Certo, visse anche di fede, e ne gustò intera la libertà. Scrisse in una lettera che «uno scienziato cristiano è libero due volte: è libero perché uno scienziato ha la libertà della conoscenza, ed è libero perché un cristiano ha la libertà dei figli di Dio». Se si va ancora su internet, è possibile dopo 30 anni dalla morte, vederlo parlare e sentirne le parole. Sono bellissime, e tradotte dicono così: «Si faranno beffe di voi, diranno che siete fuori moda, che impedite il progresso della scienza, si leverà contro di voi la bandiera della tirannia sperimentale, diranno che cercate di imbavagliare la scienza per una morale sorpassata. Ebbene, ciò che voglio dirvi è: non abbiate paura. Siete voi che trasmettete le parole della vita. Ci resta la saggezza, la sapienza eterna, quella che gli uomini non hanno inventato. Questa saggezza si riassume in una frase che spiega tutto, che risponde a tutto, che vi dirà in ogni momento ciò che dovrete fare o non fare, questa frase è semplicissima, è il Maestro di tutti che ce l’ha insegnata: “Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me”».

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