giovedì 14 settembre 2023
La morte del "padre" della pecora Dolly riporta alla luce la controversa vicenda della ricerca sugli embrioni umani, che sinora non ha portato a nulla di concreto. A differenza di altri studi
Ian Wilmut

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I an Wilmut – morto lunedì a 79 anni per le complicanze del Parkonson – è l’unico essere umano entrato nei libri di storia quale “padre” di una pecora: stiamo parlando dello scienziato da poco scomparso che nel 1996 realizzò la clonazione del primo mammifero, la famosa pecora Dolly, la cui nascita fu resa pubblica l’anno successivo. L’animale mite per antonomasia divenne il simbolo dell’esperimento inquietante per eccellenza: la clonazione.

La procedura seguita da Wilmut si ipotizzò percorribile anche per gli esseri umani, scatenando un dibattito planetario; gli studiosi che ne avevano salutato con entusiasmo il successo cercavano di rassicurare distinguendo la clonazione riproduttiva da quella terapeutica: entrambe producono embrioni clonati, cioè con lo stesso Dna dell’individuo che ha dato le proprie cellule somatiche per l’esperimento, con la stessa procedura usata per far nascere Dolly, ma hanno finalità differenti. La clonazione riproduttiva ha come fine trasferire l’embrione clonato in utero, e portarlo alla nascita. Con la clonazione terapeutica, invece, si distrugge l’embrione clonato per ricavarne cellule staminali embrionali: la finalità è guidarne lo sviluppo, facendole diventare cellule specializzate – ad esempio cellule cardiache, epatiche, etc. – e poterle usare nella medicina rigenerativa, cioè sostituendole a cellule malate.

L’obiettivo dichiarato degli studiosi era la seconda opzione – il fine terapeutico –, non la prima, che andava vietata. In Italia il dibattito esplose in occasione del referendum che nel 2005 voleva abolire parti della legge 40 sulla fecondazione assistita: i promotori volevano consentire la ricerca sugli embrioni umani, inclusa la clonazione terapeutica, per sviluppare trattamenti per malattie incurabili. Il referendum, come noto, fallì clamorosamente. Nei mesi successivi scoppiò uno degli scandali più grandi della storia della scienza: erano falsi i risultati pubblicati dal veterinario coreano Hwang Woo Suk, che aveva dichiarato di aver realizzato, primo al mondo, la clonazione terapeutica umana.

Ma la svolta avvenne due anni dopo: lo studioso giapponese Shinya Yamanaka dimostrò l’efficacia di un processo alternativo a quello che aveva fatto nascere la pecora Dolly, che poteva raggiungere lo stesso obiettivo senza clonare embrioni. La pubblicazione di Yamanaka fu anticipata proprio da Ian Wilmut, che si rese protagonista annunciando al mondo di abbandonare la ricerca che lo aveva reso famoso, perché una strada «cento volte più promettente» era stata scoperta da ricercatori giapponesi, con un nuovo metodo «sconvolgente ed eccitante».

Wilmut aveva ragione: Yamanaka vinse il Nobel a tempo di record, nel 2012. La clonazione terapeutica è stata dimenticata velocemente, e da anni non ne parla più nessuno. Il 9 agosto sulla MitTechnology Review, un articolo di Antonio Regalado titolato «Dopo 25 anni di clamore le cellule staminali embrionali stanno ancora aspettando il loro momento» spiega: «Eppure oggi, a distanza di più di due decenni, non esistono trattamenti sul mercato basati su queste cellule. Neanche uno».

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