giovedì 15 febbraio 2024
La terapia del dolore, la presa in carico globale dei pazienti in situazioni di grande sofferenza, la palliazione, le sedazione profonda: il grande farmacologo dice la sua sul fine vita
«Con cure palliative per tutti nessuno chiederebbe il suicidio assistito»
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Il messaggio del Consiglio episcopale permanente della Cei per la recente Giornata nazionale della Vita (»La forza della vita ci sorprende») è certamente condivisibile soprattutto nella prima parte che riguarda le molte, troppe “vite negate”. Non vi è dubbio che assistiamo, con poche possibilità di intervento, a tutta una serie di eventi che sottraggono alla vita coloro che sono vittime di guerre, quelle più commentate e quelle ignorate perché lontane o riguardanti popolazioni che non fanno notizia. Vanno condannati gli atti di violenza, come i femminicidi e i morti fra gli immigrati che potrebbero essere evitati se gli Stati ad alto reddito e, in primis, l’Europa, si occupassero di rendere la vita vivibile in Africa, nelle regioni dove si muore ancora per insufficienza di cibo.

Il complesso del messaggio è rivolto ai credenti ma, se posso permettermi una considerazione, non prende in esame il punto di vista di coloro che, per alcuni aspetti sono dubbiosi o, addirittura, sono non credenti. È il caso di quanto è oggi in discussione nel nostro Paese riguardante il fine vita e l’eutanasia. Alcune Regioni hanno già preso in considerazione la possibilità di renderla possibile e anche in Parlamento è stata presentata una legge. La Corte costituzionale non ha condannato chi ha reso possibile l’eutanasia all’estero. A dir il vero, che il fine vita possa essere realizzato da chi può andare in altri Paesi sembra essere di per sé una disuguaglianza che come al solito privilegia – per così dire – chi ha possibilità economiche e conoscenze.

Vorrei dire che, per sostenere la contrarietà all’eutanasia, andrebbe sottolineata l’importanza di realizzare tutta una serie di interventi che permettano a coloro che sono in fase terminale di essere curati per quanto riguarda tutte le sofferenze, dal dolore fisico a quello psicologico che riguarda la disperazione nel capire che si è arrivati alla fine della propria esistenza. Siamo in grado di affermare che siamo in regola con questo dovere che dovrebbe essere anzitutto a carico del Servizio sanitario nazionale? La risposta è negativa, molte Regioni non hanno un numero sufficiente di unità cosiddette palliative, che assicurino il ricovero nella parte terminale della vita. Esiste una legge, sono state messe anche a disposizione delle risorse economiche ma, ancora oggi, non esiste l’accesso alle cure palliative per la maggioranza dei pazienti terminali, per non parlare delle unità palliative per i bambini, che si contano sulle dita di una mano.

Ho avuto la fortuna di poter seguire una unità di terapie palliative che risiede ad Aviano in Friuli. È una Fondazione che non ha scopo di lucro, si chiama la “Via di Natale” e si occupa anzitutto di utilizzare farmaci e tecnologie per ridurre il dolore, anche con l’impiego di psicoterapisti. Non solo, ma gruppi di volontari cercano di venire incontro ai desideri degli ospiti cercando, ad esempio, di reperire la musica, i quadri, i mobili che desiderano avere nella loro camera, nonché di rendere possibile visite di parenti anche lontani, visione di film. In altre parole, rendere il più possibile “vivibile” il fine vita. Ebbene, in oltre 20 anni di attività e con oltre 3.000 morti, nessuno ha mai richiesto l’eutanasia.

Un caso irripetibile? Può darsi, ma non vi è dubbio che le richieste di eutanasia alla fine saranno inversamente proporzionali all’attenzione che abbiamo sviluppato nella pluralità della cura. Occorre tuttavia ammettere che non sempre si possono ottenere i risultati sperati. Vi saranno sempre delle persone che, per varie ragioni, hanno un fine vita in sofferenza e disperazione non sempre fisica ma, soprattutto, psicologica, insensibile a qualsiasi intervento. Ebbene, per queste persone aiutare l’avvento della morte, attraverso la sedazione profonda, non mi sembra un suicidio assistito ma un atto d’amore, come, peraltro, fanno anche molti medici cattolici che agiscono tenendo fede al Giuramento di Ippocrate, “in scienza e coscienza”. Oserei dire che si tratta di un atto in armonia con l’appello ebraico-cristiano: «Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Fondatore e Presidente Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs

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