venerdì 11 aprile 2014
​Dopo il sì della Consula all'eterologa, scatta la corsa dei centri alle scorte dei gameti.
La Cei: così si snatura la maternità e la paternità
Il legame spezzato di A. Morresi
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Donatori di gameti. La formula linguistica entra nella pioggia di spot – alcuni travestiti da servizi giornalistici – che hanno fatto seguito alla clamorosa decisione della Consulta di togliere il divieto di fecondazione eterologa dalla legge 40. Decisione che si scopre essere passata per un solo voto a favore e su cui anche la Cei si è espresso con un duro commento.Far propri ovociti e spermatozoi altrui finalmente si può anche in Italia e all’improvvisa offerta, già sbandierata da numerosi centri in tutta Italia, ecco seguire la domanda: cercasi materiale biologico. O meglio, per rendere la cosa più soft, cercasi donatori. La richiesta è impellente, in queste ore, visto che da dieci anni – cioè dal 2004, quando la legge 40 è entrata in vigore – nessuna clinica nostrana accoglie gameti a questo scopo. E, salvo qualche rimanenza nei piani bassi dei congelatori, le scorte sono tutte da costruire. Come? Un bel problema, visto che di questo la Consulta non s’è occupata (è al di fuori delle sue competenze) e, a meno che il Parlamento non si metta a ragionar di provetta nelle prossime quattro settimane, è escluso che si possa procedere secondo regole uniformi.Pensare che numerosi pionieri già ieri pomeriggio chiamavano i centri di fecondazione assistita chiedendo se e quando fosse possibile ricorrere all’eterologa. Con grande soddisfazione di quelli privati, veri beneficiari della sentenza. E con grosso disagio di quelli pubblici, in attesa – dichiarano da Milano a Padova fino a Roma – di direttive dal ministero. Le strutture pubbliche, d’altronde, l’eterologa non l’hanno mai potuta fare nemmeno prima del 2004: «La vietava dal 1985 una circolare del ministro della Salute Costante Degan», spiega la responsabile del  Centro di infertilità e procreazione medicalmente assistita del Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna, Eleonora Porcu. Il motivo era che nelle strutture pubbliche non potevano essere concepiti figli «senza una stabilità o certezza giuridica». Un problema affatto risolto, a quasi trent’anni di distanza. Ma prima del nodo dei figli dell’eterologa, viene quello dei nuovi genitori genetici. Dei donatori, appunto.In cosa consiste quella che potrebbe diventare la professione del futuro anche nel Belpaese? Semplicemente un deposito, per i maschietti. Gli spermatozoi sono facili da raccogliere: poco interessano, al mercato della provetta, che ne possiede in abbondanza. Il tesoro su cui occorre mettere le mani sono invece gli ovuli. Giovani e sani, s’intende. Non a caso il mercato è fiorente in mezza Europa, dalla Spagna ai Paesi dell’Est, anche dove viene affiliato al presunto «obbligo di gratuità» della donazione.Ma chi mai si sottoporrebbe gratuitamente alla pratica, che comporta: un ciclo di stimolazione ovarica massiccia (con tanto di iniezioni sottocutanee da praticarsi nell’addome più volte al giorno), una visita ecografica a giorni alterni (per verificare che le ovaie stiano rispondendo al trattamento) e infine un intervento chirurgico di aspirazione degli ovuli (non troppo invasivo, ma che comunque richiede un ricovero, un’anestesia e un decorso post-operatorio). Il tutto per una durata di venti giorni. «È lo stesso percorso che affrontano le donne che si sottopongono alla fecondazione assistita e che nella maggior parte dei casi comporta grande stress e sofferenza psicologica – continua la Porcu –. La stimolazione ovarica non è certo una passeggiata». La verità, allora, «è che a questi trattamenti negli altri Paesi si sottopongono le donne che si trovano in una situazione di disagio economico e che cercano un guadagno. L’eterologa è questo: la libertà di alcune donne che passa attraverso la schiavitù di altre».Numeri non ce ne sono, per questo esercito. Solo le garanzie dei centri, che offrono soggetti ben selezionati. Donatrici, le chiamano, le nuove schiave della provetta, pronte a stravolgere il proprio corpo per quasi un mese, andando in ospedale un giorno sì e uno no. Alla faccia di chi sostiene che l’ospedale è un trauma e che bisognerebbe persino abortire senza essere ricoverate. Ma a queste donne non pensa nessuno. Secondo il Journal of the American Medical Association soltanto negli Usa, dal 2000 al 2010, sono aumentate dal 70% a fronte di un crollo nell’età: a vender ovuli, cioè, sono sempre più le ventenni. Ci si paga affitti e studi, con gli ovociti. In Ucraina o in Cecoslovacchia ci si mantiene la famiglia. In India ci si mangia. Tanto che molte donne si sottopongono al trattamento anche decine di volte. Ora potrà succedere anche in Italia. È l’altra faccia della medaglia dell’eterologa: davanti la fine del calvario delle coppie senza figli che non dovranno più recarsi all’estero; dietro i nuovi calvari umani dettati da bisogno e altrettanta sofferenza.
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