sabato 22 maggio 2021
Dal Regno Unito alla Svezia alla Finlandia, crescono i dubbi sulle terapie per la "riassegnazione" negli adolescenti. E si affaccia la consapevolezza che la chiave dei problemi vada cercata altrove
Keira Bell durante il processo che a Londra ha condannato la clinica presso la quale aveva effettuato la transizione di genere

Keira Bell durante il processo che a Londra ha condannato la clinica presso la quale aveva effettuato la transizione di genere

COMMENTA E CONDIVIDI

Per l’Economist è il terzo articolo in tre mesi sulla "gender medicine", con una particolare attenzione ai bloccanti della pubertà per minori con disforia di genere. L’articolo dell’ultimo numero denuncia che «crescono i dubbi sulla terapia per i ragazzini con disforia di genere» e si preoccupa per l’aumento di bambini e adolescenti segnalati alle cliniche dedicate a queste problematiche. L’Economist parla di un numero trenta volte maggiore, rispetto a dieci anni fa, di ragazzi visitati nel Gender Identity Development Service (Gids), la struttura di riferimento nel Regno Unito, e sottolinea che i pazienti – il prestigioso settimanale usa questa parola, una scelta significativa – sono cambiati, perché si tratta soprattutto di femmine e adolescenti. I numeri assoluti, riportati recentemente anche da un’inchiesta del settimanale D-Donna, dicono che alla londinese Tavistock Clinic, centro pediatrico di riferimento del settore, nel 2009-10 si sono rivolte 32 femmine e 40 maschi, mentre dieci anni dopo sono state 1.897 le femmine – alcune con meno di 5 anni – e 723 i maschi. È un andamento generale della disforia di genere nei minori in Occidente. Osservatori come Marina Terragni hanno parlato di nuova forma di anoressia, per questo tipo di pazienti è stata coniata l’espressione «Rapid Onset Gender Dysphoria» (Insorgenza rapida di disforia di genere) e c’è chi discute di «contagio sociale».

Contro la Tavistock ha vinto la sua battaglia legale Keira Bell, ragazza detransitioner: dopo i bloccanti della pubertà ha proseguito la transizione fino a una doppia mastectomia a 20 anni, ma si è resa conto che non era la risposta ai suoi problemi. Voleva tornare al genere di nascita, ma i cambiamenti sono per lo più irreversibili. La causa – vinta – è incentrata sul suo consenso informato, inadeguato ai trattamenti subìti. Ora nel Regno Unito per somministrare i bloccanti della pubertà ai minori non basta l’avallo dei genitori ma serve il pronunciamento di un tribunale. L’Economist ricorda analoghi passi indietro della Finlandia, che nel giugno 2020 ha rivisto le linee guida per la disforia di genere, indicando i trattamenti psicologici come preferibili ai farmaci, e della Svezia, dove l’Astrid Lindgren Children’s Hospital di Stoccolma (parte del Karolinska Institute) ha annunciato di non somministrare più da aprile i bloccanti e gli ormoni cross-sex sotto i 18 anni, a eccezione di esperimenti clinici.

In Svezia la denuncia dei danni di queste terapie è partita nel 2019 da Trans Train, un’inchiesta della tv pubblica – di cui i lettori di Avvenire hanno già potuto leggere – durante la quale è venuto alla luce un vero e proprio fenomeno di malasanità, grazie anche a interviste a detransitioner e medici. L’inchiesta ha stoppato una proposta di legge governativa volta ad abbassare a 15 anni l’età del consenso dei minori sui trattamenti chirurgici per la transizione. La proposta si basava su dati che denunciavano una elevata tendenza suicidaria tra i ragazzini che non riuscivano a fare la transizione desiderata: ben il 40% dei minori transgender, secondo il dossier dei sostenitori della legge, i quali però si sono poi trincerati in silenzi imbarazzati quando l’inchiesta ha fatto emergere che quei dati erano letteralmente inventati, non c’era alcuno studio scientifico a sostegno. Al contrario, l’atteggiamento suicidario è molto discusso in letteratura, per via delle modalità di rilevamento. Ad esempio, sulla rivista scientifica Archives of Sexual Behavior il sociologo dell’Università di Oxford Micheal Biggs commenta i risultati di uno studio americano, di cui anche il New York Times ha dato conto, che ha dimostrato l’inaffidabilità delle statistiche in merito. Il finale dell’articolo di Biggs ripete un’affermazione sempre più ricorrente nella letteratura di settore: «Sono necessari trials clinici longitudinali per comprendere meglio l’efficacia della soppressione della pubertà».

Le critiche al metodo sono molte, perentoria la sintesi che ne fa l’Economist: «Mancano le evidenze, e quel che esiste non è rassicurante». Il settimanale riporta quanto pubblicato lo scorso aprile nel Journal of Paediatric Endocrinology and Metabolism, su 44 pazienti della Gids: dopo due anni di trattamento, un terzo dei ragazzini mostra un livello estremamente basso e anomalo di densità ossea; un paziente che aveva iniziato i bloccanti a 12 anni ha avuto quattro fratture ossee a 16, con una storia medica che fa pensare a una diagnosi di osteoporosi, che però è malattia tipica degli anziani. Studi animali mostrano danni cognitivi a seguito dell’uso dei bloccanti; noti i problemi cardiovascolari legati agli ormoni cross sex. È sempre l’Economist a commentare: «La combinazione di prescrizioni in aumento e prove inconsistenti porta alcuni medici a temere uno scandalo medico», mentre per altri lo scandalo sarebbe cambiare i trattamenti in corso. E la discussione internazionale continua.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: