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Don Carlo Gnocchi
Italia e Albania: un binomio ricorrente nelle cronache di questi mesi per gli accordi intercorsi tra i due Stati e alle successive prese di posizione della magistratura contrarie al loro trasferimento in questo territorio extranazionale. Italia e Albania (KC edizioni) è anche il titolo dell’ultimo libro di Giorgio Cosmacini, noto scrittore e storico della medicina. Non si tratta però questa volta di un saggio, ma di un romanzo storico, che, come specifica il sottotitolo, narra le «vite incrociate di un medico e di un prete speciale», prendendo spunto da alcune «vicende avvenute a partire dal 1939, quando l’Albania era parte integrante del “Regno d’Italia e d’Albania”, di cui era sovrano il Re Vittorio Emanuele III», ma anche una nazione balcanica legata all’Italia da un’antica tradizione risalente al Medioevo, che aveva portato nei secoli nel nostro paese un gran numero di immigrati albanesi stanziatisi in Basilicata, nel Volture.
Tra di essi nei primi decenni del Novecento i genitori del dottor Giorgio Barbaro, un chirurgo trasferitosi poi a Milano per esercitare la professione e che aveva poi stabilito un’amicizia fraterna con un prete che fu cappellano degli alpini nella guerra combattuta tra il 1940 e il 1941 sui monti della Grecia e dell’Albania. Un sacerdote divenuto in seguito celebre ed elevato alla gloria degli altari: don Carlo Gnocchi.
È lui il prete speciale di cui parla il libro di Cosmacini, che ha il pregio di ripercorrere e ricordare una pagina poco nota della biografia del prete ambrosiano, evidenziando come è in questa prima drammatica esperienza sui campi di battaglia albanesi che nasce l’idea di dedicare la sua esistenza e la sua opera all’assistenza e al recupero degli “scarti umani”.
Una vocazione alla cura degli ultimi (quegli ultimi che dovevano diventare i primi alla luce del messaggio evangelico) che si sarebbe poi rafforzata dopo le vicende legate alla campagna di Russia, durante la quale assistette con abnegazione gli alpini in disastrosa ritirata nel gelo russo che li avrebbe decimati più della guerra. Un’esperienza umana e religiosa che lo avrebbe poi portato a dedicare tutta la sua esistenza ai disabili (mutilatini, poliomielitici, vittime di infortuni sul lavoro) per “restaurare” queste persone.
Restaurare: è proprio questo il termine che Don Carlo utilizza per definire il senso del “lavoro” di carità, dedizione e di cura verso coloro che avevano perso tutto o quasi negli anni della rinascita e della speranza seguiti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il verbo significa letteralmente la capacità artigianale di «rifare le parti guaste o mancanti, ripristinare, ristabilire». Egli l’applicava non alla categoria degli oggetti (le cose), ma a quella dei soggetti (gli uomini).
La «restaurazione della persona umana» aveva per lui una duplice valenza: esprimeva da un lato la necessità indifferibile di recuperare le “parti” perse dell’individuo (un arto, l’abilità del movimento, della parola, del pieno intelletto) e significava dall’altro l’esigenza indilazionabile di incarnare la persona di Cristo in ogni uomo sofferente (nel corpo, nello spirito, nell’anima). Aveva quindi in sé una duplice ma inscindibile valenza: laica e cristiana, civile e religiosa.
Partendo da queste premesse nell’immediato dopoguerra, quando il termine riabilitazione era ancora sconosciuto o poco noto in Italia, egli formula un progetto riabilitativo che sarà di stimolo per la nascita della futura scienza riabilitativa in Italia e all’estero. Per primo comprende che la riabilitazione della persona disabile deve avere una prospettiva globale: fisico-motoria, psicologico - comportamentale, socio-familiare, economico-lavorativa. Intuisce poi l’importanza di farli vivere in una microsocietà particolare (i collegi speciali prima e i centri pilota poi) che li tuteli dalle discriminazioni e li prepari per incontrare la macrosocietà generale del mondo.
Riabilitare è per don Gnocchi ridare la vita: una vita degna d’essere vissuta anche se ne resta solo un frammento. Il procedimento di restaurazione della persona umana implica necessariamente il riferimento e il richiamo alla figura del Cristo sofferente: così come Cristo ha sconfitto la morte attraverso la Resurrezione che l’ha riportato alla vita, anche la persona disabile può sconfiggere e superare il suo limite riappropriandosi della propria esistenza. Analogamente alla “resurrezione cristiana” il processo di riabilitazione dell’individuo è paragonabile a una “resurrezione laica”. Quella che Don Gnocchi lascia ai posteri è un’idea rivoluzionaria, sia d’intendere la vocazione cristiana alla carità, sia di concepire il percorso medico della riabilitazione.