giovedì 17 settembre 2015
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Dieci anni di Ru486. La data convenzionale è quel 2005 in cui l’ospedale Sant’Anna di Torino ne inizia l’uso, ma l’iter di autorizzazione in commercio in Italia del mifepristone conosce il punto di arrivo il 30 luglio 2009, quando il Consiglio di amministrazione dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) espresse parere favorevole in merito. Tenuto conto del numero di decessi correlati all’uso della Ru486 e per verificarne l’aderenza e la compatibilità con la legge 194, in particolare relativamente al ricovero obbligatorio, nel novembre 2009 la Commissione Sanità del Senato chiese al governo di bloccarne la commercializzazione in attesa di un parere tecnico del Ministero della Salute. L’autorizzazione all’immissione in commercio venne poi pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 10 dicembre 2009. Da allora, come ben evidenziato dalla relazione annuale del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della 194, con il passare degli anni il ricorso all’aborto chimico è aumentato. La sede italiana della Nordic Pharma, azienda distributrice del prodotto, contattata per avere una dimensione aggiornata del fenomeno con dati di vendita e distribuzione del prodotto, non ha voluto fornire direttamente cifre ma ha rinviato a quanto riportato proprio nella relazione del Ministero, invitando a effettuare proiezioni che certificherebbero il trend.
Ed è dall’analisi di questi elementi che emergono alcune sorprese. La Ru486 non piace, e non "sfonda". Secondo i dati disponibili, le 7.855 donne che nel 2012 hanno interrotto volontariamente una gravidanza con questo metodo rappresentano solo l’8,5% del totale. Inoltre l’incremento di utilizzo tra il 2011 e il 2012 è stato di sole 400 unità, a fronte dell’impennata registrata tra il 2010 e il 2011 quando le cifre raddoppiarono, passando da 3.836 a 7.432. Il ricorso all’aborto chimico varia molto per regione, nel numero sia di interventi che di strutture: valori percentuali più elevati si osservano nell’Italia settentrionale, in particolare in Liguria (25,2%), Valle d’Aosta (24%), Piemonte (19%) ed Emilia Romagna (18,5%). Insomma, si è sicuramente creata una sorta di nicchia di mercato che ha i suoi punti di forza in alcune strutture (come il Sant’Anna con il suo 42%), ma in generale e nonostante corra voce di una certa raccomandazione dell’utilizzo da parte dei medici, la Ru486 resta una scelta del tutto minoritaria.«Non è solo un problema di organizzazione di strutture – spiega Alessandra Kustermann, ginecologa, responsabile del servizio di Diagnosi prenatale e del Centro soccorso violenza sessuale alla Mangiagalli di Milano –: non c’è richiesta di uso della Ru486 anzitutto per il limite di 7 settimane per la sua assunzione e poi perché richiede tre giorni per completare il processo. Con l’aborto chirurgico basta mezza giornata». Agisce in questi casi dolorosi una componente psicologica quasi di rimozione: «In Italia l’80% delle interruzioni di gravidanza viene fatto in sedazione profonda, anche se basterebbe quella locale. Ho sempre pensato che le donne vogliano essere sedate per non essere presenti al momento dell’intervento, per non partecipare». Consegnare un paio di pillole e lasciare la donna sola per tre giorni in questo passaggio crudele dimostra che «è tutto delegato alla responsabilità della donna, in solitudine rispetto a una condivisione dell’atto con il medico».
Una tesi condivisa anche da Paola Tavella, giornalista e scrittrice: «Penso che la Ru486 sia molto comoda per i medici, che si liberano da un fardello lasciandolo sulle spalle delle donne». L’aborto chimico come strumento imposto di autogestione, mentre all’epoca dell’emanazione della 194 lo Stato si era fatto garante della corretta attuazione della legge attraverso la sua applicazione nelle sole strutture sanitarie. Paola Tavella non pensa a una banalizzazione dell’aborto, «che resta un’esperienza terribile», ma punta il dito contro l’abbandono delle donne e il fiorente mercato clandestino che interessa soprattutto le straniere: «Sanno che esiste la Ru486 e si rivolgono a intermediari assumendo farmaci di dubbia provenienza e composizione, senza indicazioni e senza posologia, con esiti anche infausti. La disponibilità dell’abortivo non tutela le donne».
«Ciò che più stupisce nella logica del ricorso all’aborto "farmacologico" – commenta Maria Luisa Di Pietro, docente all’Istituto di Sanità pubblica dell’Università Cattolica di Roma – è che, mentre se ne sottolinea il presunto vantaggio per la donna (assenza di complicanze da intervento chirurgico, maggiore privacy, la possibilità di abortire anche a domicilio), non ne vengono mai citati i rischi connessi, pure ampiamente evidenziati nella letteratura medica. Si pensa che, modificando la tecnica (una pillola) o il nome ("contragestativo") dell’aborto, si possa eliminare per la donna anche il trauma di una scelta drammatica».
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