giovedì 24 novembre 2022
I 30 anni della Fondazione, pioniera nell’assistenza di malati cronici e disabili gravi là dove vivono con la famiglia. Parla il dottor Riboldi: «Più spazio alla relazione»
Operatrice della "Grassi" con una paziente

Operatrice della "Grassi" con una paziente - Foto Daniele Raschielli e Simona Cassisa

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Era la fine degli anni ’80, quando alle malattie che affliggevano l’umanità si aggiunse la piaga dell’Aids, un male allora spaventoso, ignoto, sempre mortale e in più marchiato dallo stigma di una “colpa”: chi si ammalava “se l’era voluta” ed era un lebbroso, scansato da tutti, spesso anche dai familiari. “Per queste persone, in genere ragazzi, c’era ben poco da fare, ma quello che ci era chiaro è che la cura non poteva esaurirsi durante il ricovero, quei pazienti avevano bisogno di non essere lasciati soli mai, soprattutto quando tornavano nelle loro case, se ancora ne avevano una”.

Il professor Luciano Riboldi racconta così l’esordio della “Fondazione Maddalena Grassi”, una realtà nata nel 1992 dal desiderio di un gruppo di giovani medici e infermieri di compiere una rivoluzione e creare una “assistenza domiciliare” sia per i malati e disabili cronici, sia per i pazienti terminali. “Sono stati 30 anni di grandi sfide ma anche di crescita – racconta Riboldi, uno dei fondatori e presidente dalle origini ad oggi –, eravamo tutti professionisti con un’esperienza consolidata in vari ospedali, ma sentivamo una duplice necessità, da una parte di dare alla nostra professione qualcosa di più rispetto al lavoro che svolgevamo in corsia, dall’altra vedevamo che la cura domiciliare era del tutto carente e lasciata alla buona volontà”.

Una buona volontà che fu la scintilla iniziale, ma che alla lunga non poteva bastare di fronte alla gigantesca domanda di accudimento da parte dei pazienti e delle loro famiglie, “in principio offrimmo il nostro volontariato poi, man mano che si veniva a conoscere ciò che facevamo, il fenomeno prendeva una dimensione tale che avrebbe potuto funzionare solo con un’organizzazione strutturata del lavoro”.

Ed è a questo punto, esattamente 30 anni fa, che Matilde Grassi, mamma di Maddalena, una 18enne morta di fibrosi cistica, offrì la somma necessaria per costituire una Fondazione, il cui spirito è rimasto immutato: “Promuovere e sostenere forme di assistenza sanitaria a qualsiasi tipo di bisogno, al domicilio, oppure creando contesti simili al domicilio per chi non ne ha uno, sempre guardando la persona nella totalità del suo essere”, cita a memoria Riboldi (classe 1952, fino allo scorso settembre medico del Lavoro al Policlinico di Milano). “Noi in più eravamo tutti sostenuti da un’esperienza cristiana comune che ci dava uno sguardo di com-passione, passione vissuta con il paziente”. La pressione anche emotiva era forte per medici e infermieri già esperti ma comunque giovani, che si trovavano ad affrontare storie di dolore, di paura, di morte. L’aspettativa per quei malati di Aids era di pochi mesi e non c’era terapia, “così li assistevamo in collaborazione con gli ospedali di Niguarda e del Sacco. Non programmavamo, andavamo dietro alle persone che ci capitavano, abbiamo sempre cercato di rispondere ai bisogni che incontravamo”.

Non era fatalismo, era affidamento e servizio a 360 gradi. Da lì in breve la nascita a Seveso della prima struttura residenziale per malati di Aids respinti anche dalle famiglie, grazie alla donazione di una villa da parte di un privato brianzolo: “Erano dieci posti letto, fu un passaggio impegnativo per noi, la malattia era pesante, le loro condizioni terribili, ma eravamo motivati. Con gli anni nella stessa struttura abbiamo ricavato anche quattro miniappartamenti per le persone che hanno riguadagnato una certa autonomia e he possono nuovamente godere di una collocazione propria, pur mantenendo il bisogno di supporto sanitario. E’ stato un grande traguardo perché chiunque, quando ci sono le condizioni, preferisce casa sua, e per noi è stata la chiusura del cerchio”.

Da allora le sinergie con gli ospedali lombardi e le strutture a gestione diretta della “Maddalena Grassi” si sono moltiplicate, tra miniappartamenti, case con posti letto per malati cronici (stati vegetativi, minima coscienza, Sla, sclerosi multipla…), assistenza negli hospice, strutture residenziali e centri diurni per malati psichiatrici, da 10 anni anche assistenza domiciliare ai bambini, “dal giorno in cui l’ospedale Buzzi, dovendo dimettere un bimbo rimasto fortemente limitato dopo il parto, ci chiese di farcene carico – racconta Riboldi –. Sui piccoli non avevamo esperienza, ma se il Buzzi ci avesse garantito un aiuto per i primi mesi, avremmo accettato, e così fu. Da allora arrivammo a seguirne 150 in contemporanea”.

Oggi la “Maddalena Grassi” dà assistenza domiciliare a Milano e nei comuni limitrofi a 2.500 persone, un brulichio di 350 tra medici, infermieri, operatori socio sanitari, fisioterapisti, logopedisti, psicomotricisti dell’età evolutiva, che entrano in media in 400 case al giorno e affrontano situazioni difficili, terapie impegnative, respiratori, nutrizione assistita, un complesso di attenzioni che restituiscono dignità e voglia di vivere a chi è inguaribile ma non incurabile.

Il tutto senza oneri per le famiglie, in convenzione con la Regione Lombardia che ai pazienti riconosce un voucher a seconda delle patologie e delle competenze richieste. Competenze che non possono certo essere affidate al buon cuore dei volontari, i quali affiancano la Fondazione per attività caritative importanti come la compagnia ai malati e ai loro familiari, mentre gli operatori della “Maddalena Grassi” sono tutti professionisti e retribuiti, (“solo i fondatori lavorano gratuitamente dall’inizio e continueranno a farlo”, sorride Riboldi). Sanno bene che la loro è una goccia nell’oceano, ma “dopo 30 anni siamo ancora qui e non sceglieremmo di fare altro, eppure viviamo in mezzo al dolore e alla morte. La nostra è la passione del portare sollievo”.

“E’ così – conferma Orsola Sironi, 47 anni, oncologa e direttrice sanitaria, un passato in Africa con il Vispe e con Medici senza Frontiere –, le missioni africane con il loro fascino mi sono rimaste nel cuore, ma è nell’assistenza domiciliare di questi malati speciali che ho trovato il mio baricentro: passione ed entusiasmo sono cresciuti nella fatica e nella sofferenza, due cose inscindibili se la passione è vera, perché portare sollievo è la cosa più appagante”. Ciò che caratterizza questo tipo di medicina è lo spazio lasciato alla relazione, “cosa ovviamente impossibile negli ospedali e negli ambulatori, dove la competenza tecnica è elevata ma non c’è tempo per il resto. La relazione è l’aspetto più importante, quando la malattia è inguaribile, e la nostra opera è dare supporto a 360 gradi a quella famiglia e a quel paziente”. Nella cura domiciliare – fa notare l’oncologa – non è il malato che si reca dal medico per una visita a tempo, è il medico, o l’operatore, che entra nella sua casa e ci resta, si addentra nel suo vissuto, nel contesto che magari ha visto incrinarsi le sue relazioni, gli affetti, il lavoro. Non si tratta solo di curare il corpo, “quando hai messo a posto il dolore fisico hai risolto un pezzetto di tutta la problematica. Ci è richiesto un coinvolgimento molto più forte, non c’è dubbio, ma come per l’Africa, così qui le dico che quando dai tanto ricevi tanto”. La strategia diventa necessariamente di rete tra più attori: medico di famiglia, ospedale, servizi del Comune, Regione, “e anche questo è coltivare relazioni”. Un talento che la “Maddalena Grassi” cura da vicino, organizzando eventi di formazione in tal senso per i medici e gli operatori.

Migliaia nei 30 anni i volti incontrati. Nella memoria del presidente Riboldi c’è quello di un 50enne dei primi tempi, arrabbiato con il mondo per un tumore senza scampo e una vita senza Dio. “Era aggressivo, intrattabile, i nostri due giovani operatori erano intimoriti ma resistevano. Uno degli ultimi giorni li chiamò vicino: per stare con persone come voi – disse loro – può valer la pena rimanere e combattere per la vita”. Anche la dottoressa Sironi ha la sua storia del cuore, quella di una 30enne rimasta bambina e di sua madre, avvinghiate entrambe alla vita con una determinazione che “non ti aspetteresti in una situazione così pesante. L’affetto cresciuto tra le due donne e i nostri operatori è certezza di un bene che passa comunque”. Una storia paradigmatica di come la medicina così concepita sia ritagliata su misura della singola persona: “Quando la ragazza ha le sue fasi critiche e dovrebbe essere ricoverata, per evitarle l’ospedale la prendiamo in cure palliative come se fosse una paziente terminale, così ha accesso a un’assistenza 24 ore, nelle quali applichiamo tutte le indicazioni dell’ospedale neurologico che l’ha in cura”.

Sembrano miracoli di buona sanità, la classica “foresta che cresce in silenzio” sul frastuono di ciò che non va. Un tesoro che però va tutelato, nulla è scontato: “Oggi per esempio non riusciamo più a seguire 150 bambini, a causa dell’emorragia di medici che in Italia colpisce tutto il mondo della sanità”, rimarca Riboldi, “è un esodo preoccupante, vedo colleghi bravissimi che scappano letteralmente dagli ospedali, fiaccati da una pressione sempre più insostenibile. Inoltre l’inadeguata programmazione di accessi alla facoltà di medicina ha dissanguato il settore. I numeri si risolvono, basta riaprire le università e aumentare i compensi economici, ma questo non restituirebbe comunque la cosa più importante, la motivazione per cui scegli questa professione. L’anima che ci appassiona non ha prezzo, guai se perdessimo questa”.

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