martedì 14 maggio 2024
Convegno Cei di Pastorale della Salute: la denuncia della responsabile Welfare del Censis, Ketty Vaccaro. «Liste d’attesa, rinuncia a curarsi, resa del pubblico: vanno riviste le priorità del Paese»
«Nella sanità italiana in atto un razionamento occulto»
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La capacità del Servizio sanitario nazionale (Ssn) di garantire le prestazioni ai cittadini è, nei fatti, fortemente ridimensionata. Da anni è in atto un meccanismo di razionamento occulto, come le liste d’attesa, che ha rimesso in ballo la diversa capacità di spesa dei cittadini: chi può accede alle prestazioni (intramoenia o privato) pagando di tasca propria, chi non ha la disponibilità economica aspetta, rinvia o rinuncia».

La sociologa Ketty Vaccaro, responsabile dell’area Welfare e salute del Censis, osserva che «c’è una storia lunga decenni di deinvestimento che parte dagli anni successivi all’istituzione del Ssn con la legge 833 del 1978. In modo più o meno palese, tutte le riforme effettuate da allora hanno avuto lo scopo di razionalizzare la spesa, intervenendo su più fronti e mantenendo quella del nostro Paese costantemente al di sotto della spesa sanitaria di altre nazioni europee. L’effetto è stato quello di un aumento della povertà sanitaria e delle diseguaglianze nell’accesso ai servizi, contraddicendo ai princìpi dell’universalismo e dell’equità del Ssn e rendendo più difficile proprio per le persone più svantaggiate economicamente, spesso con maggiori bisogni di salute, l’accesso alle cure».

Del peso dei determinanti sociali e della trasformazione del Ssn la sociologa Vaccaro ha parlato il 10 maggio a Verona nella giornata di studi dedicata alle povertà sanitarie in Italia, all’interno del XXV convegno nazionale di Pastorale dellaSsalute della Cei.
Gli allarmi che si susseguono sull’insufficienza del Ssn a coprire i bisogni di salute della popolazione indicano «una situazione nota, ma appunto per questo grave, a cui si stenta a porre rimedio e che delinea anzi un rischio gravissimo per il mantenimento del nostro Ssn», osserva Vaccaro. «Da molti anni – puntualizza la sociologa – assistiamo a un progressivo ridimensionamento dell’impegno pubblico nella sanità: la dinamica di questa trasformazione “sotto traccia” del Ssn è resa evidente dall’andamento della spesa sanitaria privata, cresciuta in termini reali dal 2012 al 2022 del 18,5% contro l’incremento corrispondente del 6,9% di quella pubblica: oggi la spesa sanitaria privata rappresenta il 24,4% della spesa sanitaria totale».

«Durante il Covid – ricorda Vaccaro – abbiamo sperimentato gli effetti di queste scelte, come il blocco del turn over del personale che va in pensione, con impoverimenti dei reparti e peggioramento delle condizioni di lavoro del personale, e la riduzione dei posti letto, con chiusure di ospedali, spesso necessarie, ma che non hanno dato luogo a nessuna riconversione dei servizi». «Nonostante le promesse che dopo il Covid la sanità sarebbe diventata una priorità – sottolinea Vaccaro –, le cose non sembrano cambiate e anche a livello di previsione l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Pil è vicina ai livelli pre-Covid».

«Ad aumentare di più è stata la spesa delle famiglie: se pensiamo alle persone che hanno problemi di salute con impatto assistenziale forte – precisa la sociologa –, come i malati di Alzheimer, è chiaro che il peso ricade perlopiù sulle famiglie. La privatizzazione occulta del rischio diviene sempre più reale, anche in campo sanitario. Le discriminazioni riguardano anche le diverse malattie, dal momento che le maggiori difficoltà vengono incontrate da chi ha una malattia cronica e ha più bisogno di prestazioni diagnostiche e specialistiche, che sono quelle per le quali si riscontrano le maggiori difficoltà di accesso a causa delle liste d’attesa».

«Un fenomeno – lamenta Vaccaro – che ancora oggi funziona come una forma di “razionamento occulto”. Infatti chi trova liste d’attesa bloccate, o lunghe, rimanda o rinuncia alle prestazioni (4,5 milioni di cittadini secondo l’Istat). O si rivolge al privato». Con un differenziale dipendente dalla ricchezza: «Se devo pagare di tasca mia, le dimensioni del portafoglio contano. Infatti i dati Censis indicano che rinuncia o rimanda le cure il 31% di chi ha un reddito fino a 15mila euro contro il 18,7% di chi ce l’ha sopra i 50mila». «È noto – spiega Vaccaro – che le persone che hanno livelli socioeconomici meno elevati stanno peggio e riescono a curarsi meno. Questo però non è normale in un servizio sanitario universalistico, che ha lo scopo di garantire le cure senza discriminazioni anche a chi ha minori risorse economiche, e tendenzialmente maggiori bisogni di salute».

«Oggi nell’area del welfare, che ha garantito il nostro sviluppo del dopoguerra – conclude Vaccaro –, occorre rivedere le priorità e spostare risorse verso la sanità. Soprattutto potenziando la prevenzione, l’unica risorsa che può aiutarci a razionalizzare la spesa sanitaria del futuro, perché nessuna spesa riuscirà a stare appresso all’evoluzione della domanda di una popolazione che invecchia e all’innovazione tecnologica in campo medico».

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